martedì 27 giugno 2017

Sing for the laughter, sing for the tears.

Ero in montagna a sciare quando un'amica mi ha scritto cosa avessi in programma per il 23 di giugno. Dopo un primo momento di confusione, ho capito che le erano stati regalati due biglietti per l'unica data italiana dell'Aerovederci Baby Farewell Tour degli Aerosmith e che aveva pensato di andare a vederli con me regalandomi uno dei due biglietti. Voi non immaginate la gioia con cui ho reagito a quel messaggio, davanti allo sguardo rassegnato di mio padre e quello perplesso del suo amico e di mio cugino. La data sembrava non arrivare mai, così per non farci la bocca e non rimanerci male se fosse successo qualcosa e non fossi potuta andare o, peggio ancora, se l'avessero annullato, ho deciso di pensarci il meno possibile. Stranamente, per mesi non mi sono neanche informata su chi avrebbe aperto, sui gruppi minori, ero entrata in modalità "non sperarci, non illuderti" e infatti che la band di apertura, insieme a due artisti minori a scaldare il pomeriggio, erano niente di meno che i Placebo, l'ho scoperto qualche mese fa, beccandomi della stronza da una mia compagnia di corso che non sarebbe stata al concerto.
All'alba della fatidica data, però, prese da mille impegni personali, ci siamo ritrovate senza un posto in cui dormire con le uniche stanze prenotabili a chilometri di distanza o a prezzi inaccessibili, così a qualche giorno dal concerto ci siamo dette "vabbe, fa caldo, si sta in giro per Firenze tutta la notte" - e per me sarebbe stata la realizzazione di una cosa che dico da anni, quella di passare in giro la notte post concerto -, ma alla fine, un'amica ha contattato un suo amico che ci ha offerto due letti, un bagno e un tetto sulla testa per la notte. Così, nel bel mezzo dello studio mi sono ritrovata a dover andare dal Decathlon a prendere uno zaino che rientrasse nei litri ammessi dalla security e a preparare uno zaino con lo stretto indispensabile per passare un giorno via di casa e, per la prima volta, sono davvero andata via con il minimo indispensabile e il libro su Gianni Toti e la poetronica da studiare durante le due ore di treno.
A Firenze ci ha accolto il caldo di una giornata di giugno con un sole che spaccava le pietre, un autobus in cui non si respirava e tre piani da fare a piedi in un palazzo vecchissimo che, per trovarlo, ho dovuto chiedere indicazioni a un signore in bicicletta, perché Google Maps non era chiaro sul indicare come arrivare alla via. E Dio benedica i fiorentini e la loro gentilezza! Abbiamo trovato il palazzo, le scale ripidi del vecchio palazzo e F., il silenzioso amico di un'amica a cui penso ancora di dedicare una statua. Riposate un attimo, siamo riuscite, ci ha fatto strada fino al Visarno - con me e L. che ci domandavamo davvero se saremmo state in grado di ritrovare la strada al ritorno -  e dopo una lunga camminata e aver salutato F., che avremmo ritrovato solo a concerto finito e sulla strada di casa, siamo arrivate a un Visarno supercontrollato.
Firenze a giugno la sconsiglio, davvero. Stare in un campo con pochissimi punti d'ombra ancora meno, per dirvi quanto ve lo sconsiglio, ho sfiorato lo svenimento dopo aver mangiato un gelato troppo velocemente mentre la mia pressione giocava con le montagne russe, ma questa è un'altra storia.
Alle 19 spaccate hanno iniziato i Placebo che, per quanto mi piacciono, tre loro canzoni rientrano tra le canzoni che amo da anni e prima di sentirli fossi contenta di vederli, non rientrano di certo nelle band per cui farei salti mortali per vederli, ma dopo averli sentiti suonare dal vivo - sentiti, perché visti li vedevo dal mega schermo visto che sono alta un metro e uno sputo e sembravano tutti altissimi - mi sono ripromessa di andarli a vedere di nuovo. Brian Molko, se lo sentiti parlare, sembra un po' un cartone animato, ma poi inizia a cantare e vuoi o non vuoi quello che canta ti arriva sottopelle, anche quando non è facile stare dietro alle parole che canta. Special Needs, Special K e Too Many Friends mi hanno portato a un passo dalle lacrime, le altre mi hanno caricato, anche se raramente si sono fermati a parlare - avrà salutato una volta e poi è sceso in silenzio - ma le parole diventano superflue quando suoni come hanno suonato.
Hanno suonato per un'ora, per poi lasciare un'ora per preparare per gli Aerosmith. Alle 21, sui maxi schermi parte un video che ripercorre la loro storia e poi c'è stato un boato, è arrivata la musica e sullo schermo sono comparsi loro. Certo, noi che eravamo dietro e vedevamo dallo schermo abbiamo dovuto far partire i cori per averlo acceso che, a 'na certa, era spento e basta, ma importa poco, perché gli Aerosmith erano lì vestiti come se fossero ancora dei giovani pischelli partiti da "Boston, Massachusetts" e diventati famosi in tutto il mondo. Steven Tyler a sessantanove anni spazza via i ventini per come si muove, ma soprattutto perché passa da un acuto a suonare la fisarmonica, il piano e lanciare i suoi braccialetti alla gente nel pint - li odio un po' -; Joe Perry, che la sera prima ha suonato con dei ragazzi per le strade di Firenze, come anche Brad Whitford, Tom Hamilton e Joey Kramer (Joey che, essendo stato il suo compleanno qualche giorno prima, si è beccato un coro di tanti aguuri da cinquantamila voci) dominano lo strumento, scaldano la folla, la dominano, la fanno ballare, cantare, vivere con quelle emozioni che solo band navigate e affiatate che mettono insieme generazioni diverse possono fare. E' stato indescrivibile, passare da ballare ad avere la pelle d'oca a cantare I Don't Wanna Miss A Thing, come indescrivibile è stata Dream On.
La verità che cerco di parlarne per realizzarlo, ma se non fosse per le foto, gli audio e il piccolo ciondolo a forma di plettro viola con su scritto Firenze Rocks 2017 io continuerei a pensare che sia stato un sogno. Uno di quelli belli da cui non vuoi svegliarti.






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