Se prendiamo la strada più lunga, erano solo trecentodiciannove.
Ora, tutti i chilometri che ci sono tra me e te – me e te, non noi – sembrano una distesa gigantesca, sembrano l’Oceano Atlantico che dividono me, Europa, da te, America. Sembrano una distesa incalcolabile ed inimmaginabile da poter
percorrere da sola e tutti questi chilometri sono un insieme finito – o infinito? - di cose che vorrei fare a te, di te e con te.
Vorrei urlarti addosso una lista di perché che tu non riusciresti neanche a pensare, vorrei urlarti addosso che ti odio, che sei sempre stato bravo con le parole, ma rimanevano sempre e solo parole, vorrei urlarti addosso che io sono
stanca del tuo continuo comparire e scomparire come il segnale radio in montagna, che sono stanca che sparisci sempre quando capisci che anche senza di te vado avanti. Vorrei prenderti a schiaffi, a pugni sul petto, vorrei farti
male anche solo un decimo di quello che mi sono fatta io mentre ti stavo vicina. Vorrei chiederti un abbraccio, vorrei chiederti il tempo di un caffè o meglio di tè, perché ammettiamolo, siamo più due da tè e tisane che da caffè, e
chiederti con calma, senza urlarti addosso, le risposte a perché che mi chiedo da mesi, ma poi ti farei parlare di quello che vuoi, perché poi manco di coraggio.
Erano solo trecentodiciannove chilometri, ora sono trecentodiciannove chilometri, una
porta che non si chiude e tu che fai quel cazzo che ti pare.
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