domenica 26 febbraio 2017

E mentre passa già la prima metro sotto il pavimento, sopra ci sei te e tutta Milano intorno.

In un periodo della mia vita che oscilla tra giornate in cui vorrei limitare i contatti umani, giornate in cui mi armo di sorrisi e allegria per stare vicina a mille persone diverse (non che mi pesi, in realtà) e giornate dove sto ok, giovedì mi sono convinta che dovevo uscire, perché oramai quasi tutti i miei jeans stavano andando a farsi fottere. Così, controvoglia più di quanto chiunque abbia immaginato, ho preso la macchina (da sola) per andare a fare shopping (da sola) a cercare dei vestiti (da sola). Sono tutte cose che a molte delle persone che conosco piacciono, io le odio. Guidare, per quanto ultimamente lo faccio piuttosto spesso, mi fa ancora paura, roba che quando sono in macchina da sola e devo mettere in moto faccio prima dei grossi respiri, fare shopping per cercare vestiti mi mette a disagio, perché mi mette davanti a quella che sono fuori. Mille sforzi, mille lotte, ma io sono ancora quella che quando si guarda allo specchio avrebbe voglia di prendere il primo oggetto pesante a portata di mano per lanciarlo contro il vetro mandandolo in frantumi insieme all'immagine. Sto imparando ad accettarmi, a convivere con il mio fisico, ma fare shopping per me è tutto tranne che un momento rilassante: vedo qualcosa, mi piace, poi lo guardo meglio e capisco che non solo non mi starebbe bene, ma non mi farebbe sentire a mio agio, così mi nascondo dietro a "non saprei quando usarlo" quando si parli di vestiti, a "ma dove ci vado poi!?" quando qualcosa è diverso da quello che indosso di solito, perché ho trovato il mio stile, il modo in cui con me stessa convivo bene e con cui, ogni tanto, penso "ah, oggi non sono poi così male!". Giovedì, però, ero in questo vasto negozio e, dopo pochi passi, ho notato una gonna semplice, nera, né troppo corta né troppo lunga, l'ho guardata e ho pensato "ma dove ci vai, Mara?" e non l'ho neanche guardata bene, andando a cercare un paio di jeans che mi piacessero, mi stessero e mi piacessero addosso. Non è stato facile, le taglie dei vestiti per chi non si è insicuro, certe volte, sono devastanti peggio di una critica, perché la taglia è tangibile, è dire "sei tanto così" e, nonostante sappia di non essere un numero o una lettera, fa male sapere che "tanto così" non è proprio poco. Ho trovato dei jeans, ne ho provati diverse paia evitando di pensare che per alcuni la mia taglia non c'era, era finita, ma continuavo a pensare a quella gonna e sarà stato che era da sola, ma io l'ho presa e l'ho provata. Ho tentato di mandare una foto ad un'amica nel camerino, più per dire "guarda! Ho fatto un passo!" che per volere davvero un parere su come mi stesse, e davanti alla mia immagine riflessa che quel giorno odiavo particolarmente perché metà dei jeans che avevo visto erano in taglie che non mi sarebbero entrate neanche cucendo due gambe insieme facendomi sentire (di nuovo) sbagliata, ho pensato "sai che c'è!? A me piace, mi piace come mi sta. La prendo". E l'ho presa. Nessuno sa cosa ha significato per me comprare quella gonna, pensare a cosa abbinarla, a nessuno ho detto "questa gonna è una vittoria per me". A nessuno, perché a tutti ho detto "mi piaceva e l'ho presa, non è elegante, la posso abbinare anche a cose più da me", ho tenuto per me cosa volesse dire e, ora, sto cercando di convincermi che, prima o poi, dovrò metterla.
Venerdì mattina Milano mi aspettava e siccome avevo una proclamazione di laurea poco meno di un'ora dopo il mio arrivo in Centrale, sono partita già vestita per la laurea, questo voleva dire partire già con il vestito addosso. Io con un vestito. Io che con suddetto vestito faccio un viaggio in treno, cammino per le strade di una città, mi perdo per l'università, e per giorni sono stata in panico per questo, avevo voglia di sedermi in un angolo buio per la paura di dover uscire con un vestito, ma mi sono ripetuta "la tua amica si laurea. La tua amica di cui sei fiera da morire si laurea e tu vuoi andarci in jeans? Vuoi andarci senza essere adatta alla situazione? Col piffero, tira fuori le palle". E le ho tirare fuori. Sono andata in giro, le prime ore ero a disagio, mi sentivo osservata, giudicata, a muovermi in treno avevo voglia di sotterrarmi, poi la paura è passata e, sapete una cosa? Sono sopravvissuta godendomi il momento di gloria di un'amica con tutta la gioia di cui ero capace.
E sono sopravvissuta così tanto che ogni tanto ieri e oggi ci ripensavo tra me e me dicendomi "toh, guarda che hai fatto. Chi l'avrebbe detto, anche solo un anno fa, che saresti andata in giro per Milano con un vestito?".
Ieri ero ancora a Milano, mi sono buttata nel caos del sabato di Piazza Duomo durante la fashion week e, per la prima volta dopo non so più quanto tempo, io stavo bene. Ero in mezzo alle persone, a tante persone, e non mi sentivo in trappola come invece spesso mi capita quando sono a "casa", dove la tranquillità oscilla tra essere una parentesi riferita a poche ore in qualche posto che considero "sicuro" con persone che mi conosco abbastanza da saper leggere le mie espressioni o una maschera che uso per non far preoccupare nessuno (sia mai che io, orgogliosa come sono, ammetta di avere dei problemi a stare in mezzo alle persone, che ultimamente basta che siano due e io mi senta a disagio), ma invece a Milano stavo bene, ma bene davvero. Non avevo l'ansia a camminare tra la folla, non mi sentivo sbagliata in nessuno dei modi in cui mi sono sempre sentita qua. Ero libera, da cosa? Da me stessa, dalle mie ansia, dalle mie insicure, dai giudizi che mi hanno segnato per tutta l'adolescenza. Ed è stata un'avventura.
Ho trovato una statua di Francesco Hayez, sono entrata nel cortile della Pinacoteca di Brera, ho camminato sotto gli ombrelli con le copertine di Elle - disposti sopra una via a festeggiare i trent'anni della celebre rivista di moda - e mi sono fatta fotografare di spalle da un'amica, io piccola piccola sotto quel mare di colori. Io e la mia amica abbiamo fatto l'aperitivo in un localino nel quadrilatero della moda finendo per fare amicizia con due ragazze norvegesi con cui poi siamo andate a bere in un'altra parte di Milano, parlando in un inglese zoppicante - Odino benedetto, perché devo capirlo meglio di quanto riuscirò mai a parlarlo? - con cui però riuscivamo a capirci e a ridere un sacco. Erano così simpatiche che io e Amica volevamo adottarle. Davvero. "Come to Oslo!" mi ha quasi sciolto per come ce l'hanno detto.
Stasera sono tornata a casa e, per quanto sorridente e gioiosa dopo questi tre giorni altro, è tornato tutto come prima. Sono di nuovo chiusa in camera mia con la copertina degli Avengers sulle spalle, copertina che oramai è la mia copertina di Linus, a cercare di non pensare che mercoledì inizia marzo e non ho più scuse per non andare a Pisa, per non stare in mezzo alla gente. Certo, ora so che potrò andarci pensando ai momenti belli quando starò pensando "ma perché sono uscita di casa stamani?", che da qualche parte neanche tanto lontano c'è un posto che mi fa stare bene, che per un po' mi fa dimenticare le lotte che faccio contro me stessa ogni santo giorno per essere sempre all'altezza delle mie stesse aspettative, per essere sempre quella che vorrei essere, ma che forse non sono; è rassicurante sapere che, da qualche parte, c'è un posto che ha persone che ti permettono per ventiquattro ore continue di dimenticarti completamente delle cose che non vuoi affrontare, è come se quelle che qua sono parentesi, là fossero quotidianità.
E' bello sentirsi bene:
Ora, però, guardo la valigia e sento già la mancanza delle persone che conosco, della città. Mi aggrappo alle piccole gioie di "casa", dei progetti per i prossimi giorni, ma la malinconia c'è.

In lontananza, si vede anche il Duomo di cui, davvero, sono incondizionatamente innamorata.

domenica 12 febbraio 2017

"Sorridi e non ti importa niente, niente."

E' da quando sono entrata nell'adolescenza che lotto con me stessa sia per accettarmi per come sono sia per volermi bene, per vedermi bella come sono, mi ci sono voluti quasi dieci anni per fare qualche passo, ma pian piano qualcosa si smuove. Nell'ultimo anno, forse ultimo anno è mezzo, io di passi ne ho fatti tanti, perché me ne rendo conto da sola che sono diventata più sicura, che ci sono non solo giornate, ma periodi in cui non odio l'immagine nello specchio, soprattutto mi rendo conto che ogni cosa che faccio, la faccio perché fa stare bene me, non per gli altri. E vivo bene. Benissimo.
A Sanremo c'era questa canzone - che per me non doveva arrivare quinta, ma questa è un'altra storia - e mentre qua tutti esultano per un "compaesano", io continuo ad ascoltare e riascoltarla, perché mi dà tutta la forza che avrei voluto da adolescente, che avrei voluto nei momenti no.

"E dentro hai una confusione
hai messo tutto in discussione
sorridi e non ti importa niente, niente
[...]
se anche il cuore richiede attenzione
tu fatti del bene
tu fatti bella per te
[...]
E sei più bella quando sei davvero tu
e sei più bella quando non ci pensi più"

lunedì 6 febbraio 2017

"Zio posso abbracciarti? E' una vita che ti ascolto."

Sono nata nel novantaquattro, ma ho un cugino più grande che non ho mai capito che genere ascolti, però quando ero piccola gli stavo spesso tra i piedi e così ho finito per assorbire 883 e, soprattutto, gli Articolo 31.
Già, tra tutto il rock che in adolescenza ho scoperto, gli Articolo 31 e poi J-Ax da solo sono rimasti un pilastro del mio modo d'essere, mi hanno accompagnata nei momenti di allegria e in quelli in cui la musica era la compagnia della mia rabbia, il modo di coprire i miei che litigavano (non a caso, una parte di A pugni col mondo, non riesco tutt'ora ad ascoltarla senza avere gli occhi che pizzicano) o era un modo per non sentirmi sola, diversa, quella bistratta per come vestiva, per come portava i capelli, per i suoi gusti, i suoi hobby o per le sue idee. La musica di J-Ax, per quanto io a volte non condivida sempre le sue idee, è stata, per me figlia unica con il sogno di non esserlo, un po' come i consigli di un fratello maggiore che non avevo (tutt'ora, quando metto in dubbio il mio modo di pormi alla vita ho bisogno di sentire I consigli di un pirla per ricordarmi che non voglio diventare un fantoccio, che mi piace essere quella che se gli dicono di alzarsi, lei si siede e incrocia le braccia). Nonostante le critiche, a me l'accoppiata con Fedez non dispiace neanche, se andiamo oltre ai soliti singoli che si fanno per essere mandati in radio (voglio dire, da solo ha fatto Maria Salvador che ha fatto parlare tutti, ma Oi Maria non era da meno, via), ma la verità è che Fedez in sé non mi dispiace, non rientra in una top quindici dei miei gusti personali, ma io di criticarlo proprio non me la sento. Fatto sta che, ieri, cd alla mano mi sono armata di pazienza e circondata da bambini e bambine quasi tutte lì per Fedez, mi sono fatta ore di coda per andarmi a fare firmare Comunisti col rolex da un giovane tatuato poco più grande di me e di un signore a cui praticamente devo un po' più che grazie. Arrivata sul palco avrei voluto dire chissà che, ma il tempo era poco e mi sono limitata ad un "zio posso abbracciarti? E' una vita che ti ascolto", titubante e un po' in imbarazzo, ma lui ha sorriso rispondendomi "certamente" allargando le braccia. In quel momento, dentro di me, c'era una bambina chiusa in camera con il suo primo MP3 che cantava le sue canzoni con le lacrime agli occhi nei momenti di sconforto che ha sorriso, come ho sorriso io.
Nell'album c'è una canzone che si intitola Musica del cazzo ed è una delle tre canzoni in cui, volente o no, mi ci ritrovo e neanche poco, ma non solo perché cita praticamente buona parte della mia playlist musicale di Spotify - mancano giusto Patty Smith e David Bowie, poi eravamo al completo - ma il ritorno dice una cosa - "E' solo musica del cazzo /però a me mi ha dato coraggio / di non subire come un babbo dal governo e da una ex E' solo musica del cazzo / però a me mi ha dato coraggio / lo so che non curerà il cancro /però so che ha salvato me"  - ed è forse la spiegazione migliore di quello che ha fatto la musica, non solo quella di chi la canta, per me. Mi ha cresciuta, mi ha salvato e mi ha aiutato a formarmi una testa che, per quanto sia spesso una testa di cazzo, è abbastanza aperta da non giudicare mai, da non accettare tutto stando zitta e muta. E' bello avere una canzone con cui poterlo dire.

(E ora torno al mio binge watching di sequenze di film muti per l'esame di cinema, se sopravvivo, domani dopo l'esame mi metto a ballare in stazione, giuro.)