martedì 27 novembre 2012

Piove come se non ci fosse un domani.
(E forse, un domani, non c'è)

lunedì 26 novembre 2012

Informarsi per le partenze, d'altri, in treno per amore e mai per le mie.

domenica 25 novembre 2012

Quale tipo d'estate c'è nel tuo cuore?

Dovrei avere la testa piena dell’Italia insulare e peninsulare, di morfologia, dei climi, delle precipitazioni, di confini, di mari che bagnano coste e di laghi artificiali e glaciali, ma di tutto questo non ricordo niente, non me ne importa nulla. Dovrei farmi entrare tutto questo in testa, dovrei cercare di dargli un briciolo di importanza, invece ho la testa piena di te, di quali sono i tuoi confini, di quale mare o lago bagna le tue guance, di qual è il clima nella tua testa e nel tuo cuore, di quante precipitazioni di pensieri ci sono dentro di te. E vorrei saperlo, non solo pensarlo, immaginarlo.
Vorrei sapere cosa ti passa ora per la testa, vorrei sapere chi confina con la tua tristezza, quella di quel vuoto che avevi dentro e di cui mi scrivevi alla sera – o forse, quel vuoto è stato riempito? – e che io capivo così bene perché era così simile alla mia, vorrei essere diventata un lago per riempire quel vuoto, ma io ero pioggia e la pioggia viene assorbita dal terreno e dimenticata, dimenticata.
Avrei voluto studiare la morfologia del tuo corpo con le dita, ad occhi chiusi, al buio senza poter vedere cos'era quella o quell'altra curva, studiarlo con le dita, intuirlo, ma non vederlo come se tu fossi una cartina muta, perché lo dice anche la prof. di geografia che anche le cartine mute parlano, basta solo saperle osservare e io, il tuo corpo, vorrei osservarlo ad occhi chiusi, con le dita, con le labbra. Vorrei assaporare il sapore delle tue labbra, sentire se sono salate come il mar Ionico o se son d’acqua dolce come l’acqua di un lago di origine glaciale.
Vorrei accarezzare i tuoi capelli che, sicuramente, strano ricrescendo dopo che gli hai tagliati. Vorrei studiare le valli delle tue guance, le fossette, più o meno marcate, che nascono quando uno sorride, come cambia il tuo viso quando ridi o quando pensi. Vorrei studiare i confini dei tuoi pensieri quando scrivi, quando ti addormenti, quando ti fai la tisana alla sera – mi pensi ancora, come mi dicesti quella sera quando ti augurai una buona tisana? – e soprattutto, vorrei studiare il confine della tua schiena con la mia, della mia mano nella tua, delle mie labbra sulle tue.
Vorrei studiare te, non questo mar Tirreno che diventa Ligure e che bagnia coste più vicine di quanto tu non sia mai stato.

lunedì 19 novembre 2012

Le parole e le paure a volte passano, ma le promesse e le canzoni quelle restano.

Sono le ventidue e quattordici di lunedì diciannove novembre duemiladodici, tra un mese e due giorni dovrebbe addirittura finire il mondo, pensa te che bel giorno sarà, quando ci accorgeremo che sarà solo un mese e due giorni da oggi e non succederà nulla. Io, in questo giorno a caso in un’ora a caso, ho aperto un documento di Word ed ho iniziato a scrivere, magari mi sentirei più a mio agio a farlo con una penna nera che sbaffa un po’ perché di inchiostro ne scende un po’ troppo, ma stasera mi gira di battere anzi sui tasti, perché il rumore aiuta ad esorcizzare il sotto fondo dato da Il meglio arriverà in live da venerdì.
Venerdì.
Venerdì che sembra ieri, ma che sembra anche tanto.
Venerdì che è iniziato quando il sole si era alzato da poco e la mia sveglia suonava dopo troppe poche ore di sonno.
Venerdì che è stato una giornata di prepararsi per bene, controllare di avere tutto, uscire di casa ed imprecare, hai scelto il look sbagliato e fa troppo freddo alla mattina alle sette e dieci di novembre per uscire così, ma te ne freghi, saluti tua madre, che si è alzata solo per ricordati i panini e per non sentir sbattere la porta di casa, e te ne vai a prendere l’autobus. Autobus, bar, macchina con annesso giro con musica a tutto volume per cercare un parcheggio, bar, stazione, treno in ritardo che di ritardo ne guadagna ancora, treno che corre e recupera, altra stazione, altra corsa per i sottopassaggi per non rischiare di perderlo. Gente, tanta gente; gente che parte, gente che arriva, gente che aspetta qualcuno, gente che vuole solo andare, gente che vuole solo tornare. Gente che si incrocia per la prima volta tra una persona che mormora ad un’amica “ho capito che ho i pantaloncini corti, ma sotto ho le calze, cazzo!” ed un’altra che metri più in là dichiara che quelle due hanno la faccia da fan dei Finley e che si incontra con un “scusa sei Mara?” “Sì” “Sono Claudia”. Altro treno, chiacchiere, altra stazione, sguardo che cerca un’amica, abbracci. Abbracci, ma non di quelli a caso, ma quelli che aspetti da mesi, quelli che si danno nelle stazioni quando ci si rivede dopo mesi di lontananza, quelli che se non si ha un’amica lontana non si possono capire, immaginare, comprendere.
Bagni in cui si entra in due di nascosto per non pagare, persone che ti chiedo venti volte se hai degli spiccioli per il biglietto, sole, risate, parrucche azzurre, foto senza senso, altri arrivi, altre conoscenze e di nuovo sali e scendi dagli autobus per arrivare in mezzo al nulla per guardarsi con uno sguardo da “e adesso?” cercando di fermare un signore che parte in scooter per poi ritrovarsi a ringraziare un vecchietto che passava di lì per caso.
Il nulla, un posto in mezzo agli ulivi su una strada in salita che se guardi in lontananza vedi il mare al limite dell’orizzonte, oltre i palazzi di Livorno. Il nulla che diventa un po’ casa e allora inizi a sistemarti su un muretto dove persone nuove – e persone che ti sono accanto da più o meno tempo – vedono un lato di te che chi ti vede tutti i giorni, forse, non riuscirà a vedere mai. E allora ridi con tutta l’allegria che avevi dimenticato, sorridi con tutta la leggerezza e la serenità che potrebbe metterci un bambino. E allora, in mezzo al nulla con persone che son vecchie compagnie di strada e insieme a nuove compagne di avventure sfidi i tuoi polmoni marci gonfiando palloncini che poi, in serata, si perderanno con una folata di vento, e sfidi anche il tempo che deve passare e il freddo che inizia ad arrivare stando su un marciapiede a giocare a Nomi, cose e città ridendo a crepapelle.
Sfidi il freddo, l’ansia, quell’insieme di cose orrende che ti si sono attaccate addosso in tutti questi mesi per essere quella che sei, per ridere di gusto, per non fermarti davanti a nulla e allora ti senti parte di un gruppo, un gruppo che non è solo cinque, dieci, venti persone, no un gruppo che è diventato grande, grandissimo, un gruppo che non è solo canzoni, fan, sostegno ad un gruppo. No, un gruppo che è anche amicizia, chilometri fatti per essere sotto un palco a cantare, a perdere la voce, grazie urlati o detti sotto voce o scritti giorni dopo che fanno capire quanto sia grande e speciale questo gruppo. Un gruppo che ha un nome, un simbolo e che quando li vedi, li senti, li pensi capisci di non essere sola. Ecco, questo gruppo è così, è composto da persone che si vogliono bene, che si stimano ma anche che si detestano, che non si possono vedere e che si guardano male. E’ composto da persone che si trovano in sintonia e si ritrovano chiuse in un bagno a ridere e a ripararsi dal freddo mentre c’è chi sta fuori a far le oche giulive. E’ un gruppo così grande, così variopinto che a descriverlo a parole vien pure male. Gruppo Randa, solo chi c’è dentro può capirlo. E poi ci sono loro, non le amiche a cui ho già sviolinato per una pagina intera, loro quel gruppo grazie al quale è nato tutto questo, grazie al quale io – e tanta altra gente – ho incontrato alcune delle persone più speciali della mia vita, quelle persone che sono in grado di farmi da spalla in momenti in cui io non vorrei nessuno. Loro che mi hanno tenuto su con la musica, con le parole scritte in diari, detti nei video o scritti da qualche parte, loro che sono ragazzi come tanti che vivono il loro sogno, quel sogno che è diventato anche nostro. Loro che quando li incontri son così alla mano che ti dimentichi persino che loro sono il tuo gruppo preferito da sei anni ad ora, ti dimentichi di essere timida e ti ritrovi ad avere un abbraccio inaspettato perché tifi la stessa squadra di qualcuno, a chiedere ad un altro una cosa che non hai il coraggio di chiedere a nessun’altro e a ritrovarti una delle cose più importanti scritte sul diario, a ritrovarti a ridere per le cavolate di un altro e ad ascoltare la lunghissima disavventura del componente logorroico che te la racconta nei minimi particolari.
Loro che quando salgono sul palco ed iniziano a suonare ti fanno sentire a casa, perché quella è casa loro ed è anche casa nostra, casa mia.
Ed io alle ventitré e ventinove di lunedì diciannove novembre mi ritrovo ad aver scritto una pagina lunghissima ed aver iniziato la seconda, ma non sono neanche convinta di aver espresso tutto quello che ci sarebbe da dire.
E grazie a loro che sono la mia forza, la mia voglia costante di rialzarmi quando ogni cazzo di osso sembra essersi rotto dopo una caduta.
Grazie a loro per avermi fatto sentire, di nuovo, a casa, per avermi detto che prima o poi le cose andranno meglio.
Grazie a loro di avermi fatto incontrare persone fantastiche. E grazie soprattutto a queste persone fantastiche che sanno rendere una giornata già di per sé perfetta, in una cosa ancora più grande.

sabato 17 novembre 2012

"Vi aspettano al prossimo concerto, che è un po' casa loro e un po' casa vostra."

Io mi fermo solo ora e mi rendo conto che il mio posto è sotto un palco, circonda da amiche che ti stringono la mano quando capiscono che stai per commuoverti e con il gruppo che segui da anni sul palco a cantare e a farti perdere la voce. Capisco che per star bene devo viaggiare in treno, autobus, a piedi, devo stare (anche) al freddo a giocare a "nomi come e città" su uno scalino, devo essere in mezzo a persone che capisco la tua passione.
Ieri sera, era una di quelle serate ed io che ora mi fermo solo adesso, riguardo le foto, le catalogo per bene e mi rendo conto che quando urlo "grazie" non è solo per una bella serata, non è solo per loro.
"Insieme, fino alla fine".

giovedì 15 novembre 2012

Sono di legno secco che alla minima pressione si spezza

Se tu ci sei, va tutto bene anche quando tutto va male, anche se io sono sempre un disastro, anche se con me stessa va uno schifo, anche se con te non si capisce mai un cazzo, anche se avrei altri mille "anche se".
Se tu non ci sei, va tutto a rotoli, la mia concentrazione, la mia allegria, la mia autostima, la mia testardaggine. Sì, vanno via tutte le mie cose, a te, se non ci sei, mica manca qualcosa.
Se tu torni, torni spiazzando(mi), arrivando quando oramai nessuno se lo aspettava più e lo fai scrivendo cose che poi mi lasciano sulla poltrona a tremare, perché io non sono fatta di cemento armato, no son fatta di materia fragile, di legno secco che alla minima pressione si spezza e tu mi spezzi ogni volta.
Se tu torni e poi sparisci, resto solo un legno spezzato.

venerdì 9 novembre 2012

Cose che ti fanno sorridere #6

Io sono una di quelle persone che fa di tutto per non attirare l’attenzione, che cerca sempre di essere il più invisibile possibile e che, alla fine, ci riesce anche, nonostante io sia anche molto imbranata cosa che porta a farmi inciampare/sbattere contro qualcosa, portandomi a imprecare ad alta voce e a trovarmi qualcuno che mi fissa come a dire “ma che cazz?”.
Ecco, io sono così. Sono invisibile e mi va bene, benissimo, perché così evito di ritrovarmi con le guance tinte di porpora e le parole balbettate e sempre sbagliate. Io sono così, capiamoci, perché io questo sorriso che ho sulla faccia, non lo capisco – e non ha neanche senso – perché se qualcuno mi ha notata, vuol dire che un giorno mi sono alzata ed ho dimenticato il mio mantello dell’invisibilità, un giorno ho camminato in mezzo alla gente scoperta, quasi senza difese.

C’è la E., che non mi sopporta più, che probabilmente a breve verrà a tirarmi in testa qualcosa, perché definirmi “un cancro”, se continuiamo la nostra discussione non le basta, che è convinta che quel ragazzo bassino, dagli occhi azzurri e l’aria un po’ sfatta - aria che, a me, fa pure un po’ di tenerezza – mi fissi quando lo incrociamo e che ci abbia pure indicate, che parlasse di me al suo amico.
C’è questo ragazzo di cui praticamente so solo che siamo nella stessa scuola e che ha spesso maglie di artisti che meritano una certa stima che un giorno mi ha parlato con quella che secondo la E. è una scusa per parlarmi, perché dal discorso che stavamo facendo era chiaro, secondo lei, che noi fossimo di quella scuola, mentre per me l’ha fatto solo perché era da solo alla fermata e ha detto quella frase tanto per, anche perché il discorso sarà stato composto sì e no da quattro frasi in totale. C’è questo ragazzo che non sa il mio nome, che non sa la mia classe, i miei anni o nient’altro che oggi è passato dicendomi “ciao”, così, dal nulla, quando da quando abbiamo parlato sono passate settimane e ci siamo incrociati più e più volte a scuola. C’è questo ragazzo per cui non trovo interesse o attrazione, che è solo un ragazzo carino che è a scuola lì, che mi ha fatto sorridere e infondo anche i discorsi della E. mi hanno fatto sorridere, nonostante l’idea che qualcuno possa avermi notato mi spaventa.

Io sorrido per tutto questo, sorrido, ma non è una contrazione più o meno volontaria dei muscoli facciali.

giovedì 8 novembre 2012

Ancora ci si ostina a credere che Milano è una città dove mancano i colori.

Parlavamo di Milano, a tavola. Parlavano del fatto che Milano è brutta, che non c’è nulla a parte il Duomo e poi solo palazzi grigi. Io, invece, tra un pezzo di pane al cane ed un sorso d’acqua, ho detto che non è vero, che ci sono anche musei, c’è Parco Sempione ma poi ho taciuto altre cose. Ho taciuto che a Natale, Milano, è bellissima. E’ piena di luce e l’albero addobbato davanti al Duomo ti fa sentire tanto un bambino che aspetta Babbo Natale la sera della vigilia. Ho taciuto che Milano è piena di colore, che la gente che va sempre di corsa ha la sua bellezza, che il loro accento è una boccata di allegria, che Parco Sempione in estate, nonostante il caldo, è bello da riempire il cuore. Ho taciuto che la Madunina, vista in un giorno di sola, brilla come se fosse una stella, che l'odore acre dello smog non lo senti, che la metro, con il suo abbraccio soffocante di chi si trova sotto terra, ti fa sentire al sicuro come se fossi in un ventre. Ho taciuto che Milano non è quella che si vede a primo impatto, che non è grigia, che è da conoscere, da vivere, per apprezzarla, come se fosse una persona introversa che non ti mostra quello che ha dentro appena la incontri.
Avrei voluto dire che Milano, anche a passarci di sfuggita, a passarci una giornata, un paio di giorni per un concerto, mi ha fatto sentire a casa più di questo posto che potrà anche essere senza smog e nebbia, ma non sa nulla di cosa vuol dire far sentire vivo qualcuno.

lunedì 5 novembre 2012

Hic et nunc.

Qui ed ora vorrei lui.
Qui ed ora vorrei F.
Qui ed ora vorrei il coraggio di sentire bene tutte le canzoni di cui fanno la cover, per vedere quali potrei riuscire a fare in due settimane.
Qui ed ora vorrei non essere sola quando mi dovrò sedere di nuovo dietro a quello strumento.
Qui ed ora vorrei non essere più considerata la “secchiona” della classe.
Qui ed ora vorrei non essere considerata quella “sempre responsabile”.
Qui ed ora vorrei non essere quella che dà sempre troppa considerazione alle parole altrui.
Qui ed ora vorrei essere forte.