Ero in montagna a sciare quando un'amica mi ha scritto cosa avessi in programma per il 23 di giugno. Dopo un primo momento di confusione, ho capito che le erano stati regalati due biglietti per l'unica data italiana dell'Aerovederci Baby Farewell Tour degli Aerosmith e che aveva pensato di andare a vederli con me regalandomi uno dei due biglietti. Voi non immaginate la gioia con cui ho reagito a quel messaggio, davanti allo sguardo rassegnato di mio padre e quello perplesso del suo amico e di mio cugino. La data sembrava non arrivare mai, così per non farci la bocca e non rimanerci male se fosse successo qualcosa e non fossi potuta andare o, peggio ancora, se l'avessero annullato, ho deciso di pensarci il meno possibile. Stranamente, per mesi non mi sono neanche informata su chi avrebbe aperto, sui gruppi minori, ero entrata in modalità "non sperarci, non illuderti" e infatti che la band di apertura, insieme a due artisti minori a scaldare il pomeriggio, erano niente di meno che i Placebo, l'ho scoperto qualche mese fa, beccandomi della stronza da una mia compagnia di corso che non sarebbe stata al concerto.
All'alba della fatidica data, però, prese da mille impegni personali, ci siamo ritrovate senza un posto in cui dormire con le uniche stanze prenotabili a chilometri di distanza o a prezzi inaccessibili, così a qualche giorno dal concerto ci siamo dette "vabbe, fa caldo, si sta in giro per Firenze tutta la notte" - e per me sarebbe stata la realizzazione di una cosa che dico da anni, quella di passare in giro la notte post concerto -, ma alla fine, un'amica ha contattato un suo amico che ci ha offerto due letti, un bagno e un tetto sulla testa per la notte. Così, nel bel mezzo dello studio mi sono ritrovata a dover andare dal Decathlon a prendere uno zaino che rientrasse nei litri ammessi dalla security e a preparare uno zaino con lo stretto indispensabile per passare un giorno via di casa e, per la prima volta, sono davvero andata via con il minimo indispensabile e il libro su Gianni Toti e la poetronica da studiare durante le due ore di treno.
A Firenze ci ha accolto il caldo di una giornata di giugno con un sole che spaccava le pietre, un autobus in cui non si respirava e tre piani da fare a piedi in un palazzo vecchissimo che, per trovarlo, ho dovuto chiedere indicazioni a un signore in bicicletta, perché Google Maps non era chiaro sul indicare come arrivare alla via. E Dio benedica i fiorentini e la loro gentilezza! Abbiamo trovato il palazzo, le scale ripidi del vecchio palazzo e F., il silenzioso amico di un'amica a cui penso ancora di dedicare una statua. Riposate un attimo, siamo riuscite, ci ha fatto strada fino al Visarno - con me e L. che ci domandavamo davvero se saremmo state in grado di ritrovare la strada al ritorno - e dopo una lunga camminata e aver salutato F., che avremmo ritrovato solo a concerto finito e sulla strada di casa, siamo arrivate a un Visarno supercontrollato.
Firenze a giugno la sconsiglio, davvero. Stare in un campo con pochissimi punti d'ombra ancora meno, per dirvi quanto ve lo sconsiglio, ho sfiorato lo svenimento dopo aver mangiato un gelato troppo velocemente mentre la mia pressione giocava con le montagne russe, ma questa è un'altra storia.
Alle 19 spaccate hanno iniziato i Placebo che, per quanto mi piacciono, tre loro canzoni rientrano tra le canzoni che amo da anni e prima di sentirli fossi contenta di vederli, non rientrano di certo nelle band per cui farei salti mortali per vederli, ma dopo averli sentiti suonare dal vivo - sentiti, perché visti li vedevo dal mega schermo visto che sono alta un metro e uno sputo e sembravano tutti altissimi - mi sono ripromessa di andarli a vedere di nuovo. Brian Molko, se lo sentiti parlare, sembra un po' un cartone animato, ma poi inizia a cantare e vuoi o non vuoi quello che canta ti arriva sottopelle, anche quando non è facile stare dietro alle parole che canta. Special Needs, Special K e Too Many Friends mi hanno portato a un passo dalle lacrime, le altre mi hanno caricato, anche se raramente si sono fermati a parlare - avrà salutato una volta e poi è sceso in silenzio - ma le parole diventano superflue quando suoni come hanno suonato.
Hanno suonato per un'ora, per poi lasciare un'ora per preparare per gli Aerosmith. Alle 21, sui maxi schermi parte un video che ripercorre la loro storia e poi c'è stato un boato, è arrivata la musica e sullo schermo sono comparsi loro. Certo, noi che eravamo dietro e vedevamo dallo schermo abbiamo dovuto far partire i cori per averlo acceso che, a 'na certa, era spento e basta, ma importa poco, perché gli Aerosmith erano lì vestiti come se fossero ancora dei giovani pischelli partiti da "Boston, Massachusetts" e diventati famosi in tutto il mondo. Steven Tyler a sessantanove anni spazza via i ventini per come si muove, ma soprattutto perché passa da un acuto a suonare la fisarmonica, il piano e lanciare i suoi braccialetti alla gente nel pint - li odio un po' -; Joe Perry, che la sera prima ha suonato con dei ragazzi per le strade di Firenze, come anche Brad Whitford, Tom Hamilton e Joey Kramer (Joey che, essendo stato il suo compleanno qualche giorno prima, si è beccato un coro di tanti aguuri da cinquantamila voci) dominano lo strumento, scaldano la folla, la dominano, la fanno ballare, cantare, vivere con quelle emozioni che solo band navigate e affiatate che mettono insieme generazioni diverse possono fare. E' stato indescrivibile, passare da ballare ad avere la pelle d'oca a cantare I Don't Wanna Miss A Thing, come indescrivibile è stata Dream On.
La verità che cerco di parlarne per realizzarlo, ma se non fosse per le foto, gli audio e il piccolo ciondolo a forma di plettro viola con su scritto Firenze Rocks 2017 io continuerei a pensare che sia stato un sogno. Uno di quelli belli da cui non vuoi svegliarti.
martedì 27 giugno 2017
Nelle puntate precedenti di Daytime Origami.
Ho preparato un esame da 12 crediti con quattro libri - per un totale di circa 654 pagine + due semestri di appunti - in venti giorni, dormendo poco e niente, perché finivo di studiare a tarda notte e poi tra caldo e ansia le notte le passavo a rigirarmi nel letto e stamattina, mentre aspettavo il mio turno in un corridoio senza finestre di dimensioni 2x2, sentivo che avrei vomitato da un momento all'altro, ma alla fine quando hanno chiamato il mio cognome - ovviamente sbagliando la pronuncia, sia mai che lo azzecchino - ho fatto un respiro profondo dicendomi mentalmente che avevo studiato, avevo studiato tanto e bene, che il corso racchiudeva alcune delle cose che più amo e che non poteva andare tanto male. L'assistente, che si ricordava di me da un corso che ho dovuto fare un anno fa, mi ha fatto partire da dove volevo e le parole uscivano spontanee, anche sulle domande che mi ha fatto. La docente ha voluto sapere quale incontro mi fosse piaciuto di più, prima di farmi pare di Toti e, prima di parlare, ho pensato a nonno, ai punti in comuni tra l'artista che avevo scelto di portare e mio nonno e mi sono ritrovata a parlare con una tranquillità che non provavo da anni. Per il voto ho dovuto aspettare un tempo infinito, quando io volevo solo uscire da quell'ambiente caldo, smetterla di sentire chiedere "cosa ti ha chiesto?" o la gente che iniziava ad andare nel panico e a non ricordarsi le cose. Ho convalidato il voto con un sorriso sul viso, non per il contrasto tra il voto dell'esame precedente e questo, ma perché avevo studiato, avevo parlato tranquilla spiegando tutto e senza cadere nei tranelli della mia ansia che se ne stava seduta sulla mia spalla e cercava di distrarmi.
Nel mentre preparavo questo esame, mi sono concessa una capatina veloce veloce a Firenze per il Firenze Rocks - che merita un post a sé - e vi giuro che l'emozione di cantare I Don't Wanna Miss A Thing in coro con altre 50mila persone con Steven Tyler e il resto degli Aerosmith su un palco a diversi metri di distanza devo ancora scrollarmela di dosso.
Ho socializzato con un bambino. Non sarebbe niente di speciale se non fosse che io non amo particolarmente i bambini, ma loro inspiegabilmente amano me. Questo bambino, figlio di vicini, era qua a cena domenica sera, io subito dopo mangiato sono tornata a studiare, ma dopo poco è arrivato a chiedermi se avevo della musica ed è finita che non ho studiato se non dopo mezzanotte, perché ha voluto giocare con me. Dal piano di sotto sento la sua festa di compleanno, fa cinque anni, madre li ha regalato un completo di Capitan America che si è voluto mettere subito. Lo odio un po' meno di altri bambini, anche se ha urlato per tutti i venti giorni in cui io volevo silenzio.
Fa un caldo disumano, ma domani danno allerta meteo per pioggia, speriamo.
Ah. "Daytime Origami" è la parodia di una serie americana iniziata da poco, tale Daytime Divas e, per quanto lo studio mi abbia fatto vedere solo due puntate, io ve la consiglio.
Nel mentre preparavo questo esame, mi sono concessa una capatina veloce veloce a Firenze per il Firenze Rocks - che merita un post a sé - e vi giuro che l'emozione di cantare I Don't Wanna Miss A Thing in coro con altre 50mila persone con Steven Tyler e il resto degli Aerosmith su un palco a diversi metri di distanza devo ancora scrollarmela di dosso.
Ho socializzato con un bambino. Non sarebbe niente di speciale se non fosse che io non amo particolarmente i bambini, ma loro inspiegabilmente amano me. Questo bambino, figlio di vicini, era qua a cena domenica sera, io subito dopo mangiato sono tornata a studiare, ma dopo poco è arrivato a chiedermi se avevo della musica ed è finita che non ho studiato se non dopo mezzanotte, perché ha voluto giocare con me. Dal piano di sotto sento la sua festa di compleanno, fa cinque anni, madre li ha regalato un completo di Capitan America che si è voluto mettere subito. Lo odio un po' meno di altri bambini, anche se ha urlato per tutti i venti giorni in cui io volevo silenzio.
Fa un caldo disumano, ma domani danno allerta meteo per pioggia, speriamo.
Ah. "Daytime Origami" è la parodia di una serie americana iniziata da poco, tale Daytime Divas e, per quanto lo studio mi abbia fatto vedere solo due puntate, io ve la consiglio.
sabato 17 giugno 2017
My old friend.
16 giugno 2017.
Dovrei continuare a studiare, ho un esame tra dieci giorni e ho riscattarono dallo scivolone dell'ultimo esame.
Ultimo esame dove eri lì con me, come sei oggi qui, cone tutte le notti negli ultimi mesi e non te ne vai. Anche ora sei qua, non come un'entità astratta, ma come un blocco di marmo che mi schiaccia il petto, una mano invisibile che sta stringendo la sua presa su cuore e polmoni che fanno fatica a lavorare. Sei un piccolo mostricciatolo che seduto sulla mia spalla mi sussurra negatività che non so più se sono frutti del tuo sacco o se ti limiti a esporre la realtà.
Evito gli inviti, invento scuse per non andare a fare serata con le amiche… soldi, devo studiare, ho gia un impegno, ma la realtà è che ho paura. Paura di te, di me. E se finisse come quella volta in riva al mare, se finisse come quella volta in cui costrinsi tutti a tornare a casa alle 7 di mattina perché sono stata male e ho un vuoto di ore che ho ricostruito solo grazie ad altri? O se invece mi sentissi male come quelle volte a scuola in cui rimanevo lucida mentre mi sembrava di affogare e di non riuscire a uscire dall'acqua per fare entrare aria nei miei polmoni anziché acqua?
Forse dovrei avere il coraggio di dire ad alta voce “ho un problema” e poi “ho bisogno di aiuto, da sola non riesco”, ma io non ce la faccio ad ammettere di avere un problema, di avere bisogno di aiuto, di avere un punto debole. No, non riesco e tu di questo ti nutri diventando più forte giorno dopo giorno.
Com'era prima di te?
Come stavo?
Chi ero?
Chi sono?
Ho la sensazione che tu stia diventando me, che tu stia divorando tutto e che tu stia finendo con il definire chi sono. Non sono più io che ho l'ansia. Sei tu ad avere me.
Io sono la mia ansia.
Ho fame, vorrei una pizza coi funghi anche se fa caldo, ma quando metto il cibo in bocca deglutire fa quasi male, è come se i bocconi fossero troppo grandi sia da masticare che da buttare giù. Allora bevo tanta acqua, tante bevande zuccherate, mi costringo a mangiare a cena e a ogni boccone mi ripeto nella testa “non devi dargliela vinta. Mangia.”.
E’ un combattimento costante, forse è per questo che quasi ogni notte sogno di scontrarmi con un lupo che mi batte sempre. Dimostra di comandare lui.
Comandi tu.
Mi comandi tu.
Ti ho scritto come se fossi una persona, perché oramai sei così presente che non sei più astratta, sei quasi tangibile. Ti ho scritto perché così mi libero di questa morsa al petto e posso tornare a studiare di questo mondo di cui vorrei fare parte, di radio, di comunicazione, di cose belle che tu mi stai rovinando.
Ora respiro meglio rispetto a molte righe fa, scrivere aiuta, ma non è possibile farlo sempre.
Il CD nello stereo è finito, le macchine corrono sul viale e le sento dalla finestra aperta da cui non entra aria. Tutto va avanti, io mi sento impantanata nelle sabbie mobili, se mi agito potrei solo sprofondare più velocemente. Allora mi fermo, cerco di analizzare come uscirne.
Posso tornare a studiare?
A essere me?
A essere libera da te?
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