lunedì 11 marzo 2019

Twenty-five years and my life is still trying to get up that great big hill of hope for a destination.

Durante il silenzio tra questo e il post precedente ho compiuto un quarto di secolo, compleanno che per certi versi ho vissuto piuttosto male. E' un'età che non sento mia, che mi sembra così grande, così definitiva come se dovessi per forza aver realizzato qualcosa, raggiunto dei traguardi, quando invece non ho fatto granché nella mia vita se non collezionare una lunga serie di fallimenti. Non riesco a pronunciarla, la mia età, senza un nodo allo stomaco, uno brutto, allora cerco di sviare: 21+4, il quarto anniversario dei ventuno. Qualcuno lo trova uno scherzo, qualcuno sa che dietro a questo mio modo di contare c'è tutta la mia difficoltà a crescere, a sentirmi un'adulta, ad accettare che i miei fallimenti e che non posso confrontare il mio percorso di vita con quello degli altri, perché ognuno ha i suoi tempi.
Non voglio mai festeggiare, a maggior ragione quest'anno e c'ero quasi riuscita: partendo per la montagna il giorno del mio compleanno stava passando in sordina, poi qualcuno ha urlato "buon compleanno!" a tavola, qualcun'altro si è ricordato che il mio compleanno cadeva in quel periodo mentre portavamo gli sci in paese - "era la scorsa settimana?" "no, oggi" "cazzo, auguri! Stasera andiamo a festeggiare!" - e mi sono ritrovata trascinata in un vortice che si è concluso all'alba del giorno dopo rientrando in una camera d'albergo ubriaca e sorridente. Una parte di me ha pensato che avere la mia età non è la fine, non è un punto d'arrivo dove si contano i punti accumulati fino a quel momento, è solo una tappa. Un'altra parte di me, ora, pensa solo che era ottimismo da alcol, ma questa è un'altra storia.
Ho iniziato il mio quarto anniversario dei ventuno con mio padre, lontana da casa e con persone che conoscevo poco o niente. L'ho iniziato andando a dormire sempre troppo tardi e alzandomi sempre troppo presto, portando le mie gambe al limite della loro resistenza spingendole giù dalle piste finché ne avevo voglia, ridendo e parlando di cose più o meno serie, ballando, prendendomi della pigra per non voler camminare un metro di più con gli scii in spalla, sentendomi coinvolta in un gruppo di cinque persone che si conoscono e tra cui io ero la nuova, l'estranea, ma non mi ci hanno fatto mai sentire. L'ho iniziato con il sapore di speranza di aver trovato nuovi amici, nuove persone con fare le cose senza il bisogno di riuscire a incastrare i miei impegni con quelli delle amiche più lontane. Certo, so che è solo una speranza, che ora che sono tornata a casa le cose non saranno proprio così, ma ieri ci siamo visti in tre su cinque, io col mal di pancia pensando di essere di troppo, di essere lì solo per il loro tabacco che poco importava se l'avessimo deciso ben prima di andare al cinema tutti insieme quella domenica una volta tornati a casa ("credo andrò a vederlo da sola" "vieni con noi! A me farebbe piacere!" - "Bionda, ci rivediamo prima o poi?" "M. la rivediamo domani!"), ma poi li ho visti arrivare: lei sorridente, lui ancora a sfottermi perché non sono andata alla spa. Lui che mi definisce "un'amica" in un discorso, lei che mi dice "magari ci vediamo in settimana" e io la sento ancora quella speranza di tempi migliori, di una zona che forse forse non può essere così terribile.
So che alla fine queste speranze verranno deluse, perché io non so comportarmi, perché gli altri si dimenticano facilmente di me, ma per ora mi piace questa speranza di tempi migliori.

Ah, sciare porta consiglio e tempi migliori: ho chiuso il capitolo Cantante. Lui è sparito, io ho sciato via la voglia di corrergli dietro.

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