lunedì 19 novembre 2012

Le parole e le paure a volte passano, ma le promesse e le canzoni quelle restano.

Sono le ventidue e quattordici di lunedì diciannove novembre duemiladodici, tra un mese e due giorni dovrebbe addirittura finire il mondo, pensa te che bel giorno sarà, quando ci accorgeremo che sarà solo un mese e due giorni da oggi e non succederà nulla. Io, in questo giorno a caso in un’ora a caso, ho aperto un documento di Word ed ho iniziato a scrivere, magari mi sentirei più a mio agio a farlo con una penna nera che sbaffa un po’ perché di inchiostro ne scende un po’ troppo, ma stasera mi gira di battere anzi sui tasti, perché il rumore aiuta ad esorcizzare il sotto fondo dato da Il meglio arriverà in live da venerdì.
Venerdì.
Venerdì che sembra ieri, ma che sembra anche tanto.
Venerdì che è iniziato quando il sole si era alzato da poco e la mia sveglia suonava dopo troppe poche ore di sonno.
Venerdì che è stato una giornata di prepararsi per bene, controllare di avere tutto, uscire di casa ed imprecare, hai scelto il look sbagliato e fa troppo freddo alla mattina alle sette e dieci di novembre per uscire così, ma te ne freghi, saluti tua madre, che si è alzata solo per ricordati i panini e per non sentir sbattere la porta di casa, e te ne vai a prendere l’autobus. Autobus, bar, macchina con annesso giro con musica a tutto volume per cercare un parcheggio, bar, stazione, treno in ritardo che di ritardo ne guadagna ancora, treno che corre e recupera, altra stazione, altra corsa per i sottopassaggi per non rischiare di perderlo. Gente, tanta gente; gente che parte, gente che arriva, gente che aspetta qualcuno, gente che vuole solo andare, gente che vuole solo tornare. Gente che si incrocia per la prima volta tra una persona che mormora ad un’amica “ho capito che ho i pantaloncini corti, ma sotto ho le calze, cazzo!” ed un’altra che metri più in là dichiara che quelle due hanno la faccia da fan dei Finley e che si incontra con un “scusa sei Mara?” “Sì” “Sono Claudia”. Altro treno, chiacchiere, altra stazione, sguardo che cerca un’amica, abbracci. Abbracci, ma non di quelli a caso, ma quelli che aspetti da mesi, quelli che si danno nelle stazioni quando ci si rivede dopo mesi di lontananza, quelli che se non si ha un’amica lontana non si possono capire, immaginare, comprendere.
Bagni in cui si entra in due di nascosto per non pagare, persone che ti chiedo venti volte se hai degli spiccioli per il biglietto, sole, risate, parrucche azzurre, foto senza senso, altri arrivi, altre conoscenze e di nuovo sali e scendi dagli autobus per arrivare in mezzo al nulla per guardarsi con uno sguardo da “e adesso?” cercando di fermare un signore che parte in scooter per poi ritrovarsi a ringraziare un vecchietto che passava di lì per caso.
Il nulla, un posto in mezzo agli ulivi su una strada in salita che se guardi in lontananza vedi il mare al limite dell’orizzonte, oltre i palazzi di Livorno. Il nulla che diventa un po’ casa e allora inizi a sistemarti su un muretto dove persone nuove – e persone che ti sono accanto da più o meno tempo – vedono un lato di te che chi ti vede tutti i giorni, forse, non riuscirà a vedere mai. E allora ridi con tutta l’allegria che avevi dimenticato, sorridi con tutta la leggerezza e la serenità che potrebbe metterci un bambino. E allora, in mezzo al nulla con persone che son vecchie compagnie di strada e insieme a nuove compagne di avventure sfidi i tuoi polmoni marci gonfiando palloncini che poi, in serata, si perderanno con una folata di vento, e sfidi anche il tempo che deve passare e il freddo che inizia ad arrivare stando su un marciapiede a giocare a Nomi, cose e città ridendo a crepapelle.
Sfidi il freddo, l’ansia, quell’insieme di cose orrende che ti si sono attaccate addosso in tutti questi mesi per essere quella che sei, per ridere di gusto, per non fermarti davanti a nulla e allora ti senti parte di un gruppo, un gruppo che non è solo cinque, dieci, venti persone, no un gruppo che è diventato grande, grandissimo, un gruppo che non è solo canzoni, fan, sostegno ad un gruppo. No, un gruppo che è anche amicizia, chilometri fatti per essere sotto un palco a cantare, a perdere la voce, grazie urlati o detti sotto voce o scritti giorni dopo che fanno capire quanto sia grande e speciale questo gruppo. Un gruppo che ha un nome, un simbolo e che quando li vedi, li senti, li pensi capisci di non essere sola. Ecco, questo gruppo è così, è composto da persone che si vogliono bene, che si stimano ma anche che si detestano, che non si possono vedere e che si guardano male. E’ composto da persone che si trovano in sintonia e si ritrovano chiuse in un bagno a ridere e a ripararsi dal freddo mentre c’è chi sta fuori a far le oche giulive. E’ un gruppo così grande, così variopinto che a descriverlo a parole vien pure male. Gruppo Randa, solo chi c’è dentro può capirlo. E poi ci sono loro, non le amiche a cui ho già sviolinato per una pagina intera, loro quel gruppo grazie al quale è nato tutto questo, grazie al quale io – e tanta altra gente – ho incontrato alcune delle persone più speciali della mia vita, quelle persone che sono in grado di farmi da spalla in momenti in cui io non vorrei nessuno. Loro che mi hanno tenuto su con la musica, con le parole scritte in diari, detti nei video o scritti da qualche parte, loro che sono ragazzi come tanti che vivono il loro sogno, quel sogno che è diventato anche nostro. Loro che quando li incontri son così alla mano che ti dimentichi persino che loro sono il tuo gruppo preferito da sei anni ad ora, ti dimentichi di essere timida e ti ritrovi ad avere un abbraccio inaspettato perché tifi la stessa squadra di qualcuno, a chiedere ad un altro una cosa che non hai il coraggio di chiedere a nessun’altro e a ritrovarti una delle cose più importanti scritte sul diario, a ritrovarti a ridere per le cavolate di un altro e ad ascoltare la lunghissima disavventura del componente logorroico che te la racconta nei minimi particolari.
Loro che quando salgono sul palco ed iniziano a suonare ti fanno sentire a casa, perché quella è casa loro ed è anche casa nostra, casa mia.
Ed io alle ventitré e ventinove di lunedì diciannove novembre mi ritrovo ad aver scritto una pagina lunghissima ed aver iniziato la seconda, ma non sono neanche convinta di aver espresso tutto quello che ci sarebbe da dire.
E grazie a loro che sono la mia forza, la mia voglia costante di rialzarmi quando ogni cazzo di osso sembra essersi rotto dopo una caduta.
Grazie a loro per avermi fatto sentire, di nuovo, a casa, per avermi detto che prima o poi le cose andranno meglio.
Grazie a loro di avermi fatto incontrare persone fantastiche. E grazie soprattutto a queste persone fantastiche che sanno rendere una giornata già di per sé perfetta, in una cosa ancora più grande.

2 commenti:

  1. Ogni altra mia parola sminuirebbe tutto quanto. Hai detto già tutto, tu.
    Mi commuovo di nuovo, per l'ennesima volta, da venerdì a questa parte. Mi manchi, mi mancate da morire. Che poi bho, io rimango sempre qui a chiedermi cos'ho fatto di così speciale per meritarmi voi. So che non troverò mai una risposta e mi sta bene perché in cuor mio so che finché campo (e oltre!) sarete sempre nel mio cuore.

    Ti lascio un bacino e un abbraccio,
    ti voglio bene.

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    1. Aw, io poi leggo queste cose e torno a sorridere anche se oggi è stata una giornata schifo.
      Ma quanto sarai speciale?

      Ti lascio un grande abbraccio, Compare,
      Ti voglio bene

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