Lo stress di una classe che non ti appartiene (o tu non appartieni a lei?), di una scuola che non ti piace in un posto che ti soffoca, perché non è né Milano né Firenze.
La malinconia della pioggia e la rabbia di chi parla senza pensare alle sue (non) azioni e ai tuoi sacrifici (di cuore).
Lo stress, la malinconia, i tendini della mano che urlano pietà e tu che sbotti di smetterla di chiamarti in duecento. Tu che sei stanca dei pranzi con gente che non sa parlare d’altro che di unghie e di fidanzati e lampade da fare. Tu che vorresti sorrisi e non domande di circostanza.
Tu che poi sono io che non piango per nessun motivo al mondo, perché sennò mi si arrugginiscono le guance.
E poi ci sei tu, tututu.
Tu che salutavi e poi non più, che compari quando uno è convinto che non ci sei e pass(av)i senza salutare, senza sorridere (sorridermi). Tu che, mentre piove, come me giri col cappuccio sotto l’acqua e senza ombrello.
Tu con gli occhi ghiaccio e il sorriso caldo come il sole a primavera quando ti scalda le braccia scoperte per metà. Tu che torni a salutare, a sorridere (a sorridermi) e fai bloccare una come me che alla primavera non ci si abitua mai, una che a questa danza strana non sa prenderci l’abitudine.
Tu che torni a salutare, a sorridere ed io che poco dopo metto un piede in una pozzanghera, ma non impreco, sorrido.
Sorrido.
(E’ l’ultimo giorno d’inverno per il calendario, per gli alberi che hanno già dei fiori e delle gemme, per me. E’ l’ultimo giorno d’inverno e vorrei che fosse l’ultimo giorno di primavera, ma vorrei che l’estate fossi tu e non un qualcosa che si sta scongelando dentro.)
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