domenica 31 marzo 2013

Possiamo urlarci addosso, possiamo demolirci, ma possiamo anche far nascere il sole.

Questa famiglia può starmi stretta, può soffocarmi, deludermi, ferirmi, farmi sentire una nullità, ma quando decidono di dare una bella notizia la sanno dare così grande che ti fa esplodere il cuore.
E forse è vero che il sole arriva, che le cose belle vanno da chi se lo merita... e devono andare bene.

sabato 23 marzo 2013

I feel you in the wind, you guide me constantly.

Ciao nonno,
sto cercando di scriverti da un’ora buona, ma mi sono interrotta troppe volte, così ho cancellato tutte le righe che avevo battuto prima per iniziare una nuova lettera. Il brutto di scriverti al computer, sai qual è? E’ che se cancello, non rimangono i segni. Non resta nulla.
Sarà che hanno “rovinato” una canzone con un grande significato, sarà che quella canzone è stata la mia forza – è la mia forza – nelle sere in cui mi dovevo abituare veramente al fatto che, ogni volta che avrei cercato il tuo viso, i tuoi occhi, avrei dovuto trovarti solo su fotografie che, giorno dopo giorno, svaniscono un po’ di più. Sarà che io sto crescendo, ma ci sono ferite che non guariscono così facilmente o forse guariscono, ma male, perché non le abbiamo disinfettate bene, non c’era nessuno a passarti sopra un batuffolo di cotone imbevuto di Lysoform Medical, quello verde che non brucia. Sono state sciacquate bene, tu e nonna l’avete sempre fatto, avete sempre tolto lo sporco di quelle ferite che nessuno vedeva, che nessuno vede. Se non ci foste stati voi…
Ti scrivo e ho gli occhi lucidi, sai? Non piango, tranquillo. Sono abbastanza forte per riuscire a non piangere, certo, a te non posso nasconderlo che ci sono volte in cui, poi, tutte le lacrime vengono fuori, silenziose ed inesorabili, ma quando ci sei tu di mezzo mi brillano gli occhi, mi pizzica il naso, ma non piango. Come si può piangere per qualcosa che ti dà forza?
Continuo a sentire quella canzone da ore, sai? Sarà che mi manchi, tanto, davvero. Sarà che ho imparato a sorridere, sono andata e ho sorriso, come mi dicesti di fare una volta, poco tempo prima di iniziare a spegnerti davvero, perché noi siamo così, è nel nostro sangue. Siamo legno che si crepa, ma non lo dimostra, resiste fino a quando, un giorno, quando può sembrare di punto in bianco, si spezza e quando il legno si spezza, non si riaggiusta. Non si riaggiusta. Sarà che ogni tanto chiudo gli occhi e ripenso a quella casa che, ora, non ha più lo stesso aspetto, gli stessi mobili, gli stessi colori e gli stessi profumi e cerco di ricordare più quante cose possibili di quel posto che per me era casa più di ogni posto segnato sui miei documenti, più di Firenze, di Milano, del mondo intero, di nonna, della sua cucina e di te che aggiustavi le cose, di te che facevi le parole crociate, di te che mi facevi appassionare alla storia, di te che cantavi… la memoria è infame, lo sai? Ti lascia le immagini che non vorresti ricordare impresse nella mente che, a tradimento, ti tornano davanti come dei flash, mentre le voci, i suoni, sono i primi a sbiadire. Oh, ricordo bene dove ti mettevi a cantare, ricordo bene che spesso chiudevi gli occhi sulla poltrona verde in sala e ti dondolavi leggermente e cantavi piano canzoni che se potessi sentirti ora, ti lascerei cantare guardandoti, magari seduta sull'altra poltrona e dondolando leggermente anch'io, perché lo notai di un giorno di qualche anno fa, io e te avevamo lo stesso vizio di dondolarci sempre un po’, e poi ti chiederei a cosa pensavi mentre le cantavi, perché col senno di poi, sono sicura che le cantavi perché ti ricordavano qualcosa. Sono sicura che quando cantavi l’Inno di Italia lo facevi con più orgoglio, più speranza, più sentimento, di chiunque altra persona, questo me lo ricordo, perché se chiudo gli occhi e ci penso vedo un sorriso che esprime tutto. Sono sicura che Bella Ciao non ti ricordava solo il tuo passato da partigiano, la guerra, tutto quello che hai fatto, che hai rischiato, ma ti ricordasse anche altro, chissà forse nonna… nonna che quando ti si sentiva cantare dal salotto, mentre noi eravamo, ad esempio, nell'ingresso sedute a mangiare il gelato e tu in salotto con le finestre aperte che facevano entrare un po’ d’aria fresca, sorrideva. Oh se sorrideva!
Sai nonno, tu mi hai insegnato tanto. La maggior parte sono cose che mi porto dentro, sotto pelle e tra le costole, per farle uscire, per poterle guardare stando in piedi davanti ad uno specchio, avrò bisogno di pazienza, sopportazione, di un ago e di inchiostro per inciderlo sulla pelle fino alla fine. Mi hai insegnato cose che posso raccontare, cose che un giorno potrò insegnare a qualcuno che, come me, dava importanza alle cose semplici e apparentemente banali, come la colla fatta su un cucchiaio con acqua e farina o come un disegno di una bambina dell’asilo, seconda elementare al massimo, attaccato con il silicone sul muro. Mi hai insegnato la bellezza di cose passate, di cose che restano, delle cose piccole, semplici, come un piccolo gesto, una frase qualunque di cui, nonostante il tempo che passa, non capisci da cosa ti sia venuta fuori. Mi hai insegnato la felicità silenziosa, l’amore quello vero che sia esso per un’ideale, una donna, dei figli, dei nipoti o per la famiglia in generale e che viene espresso in tanti modi, scritto a parole, in baci delicati, in sguardi forti, oltre all'amore, però, mi hai insegnato il dolore che non si può descrivere, urlare, tirare fuori. Mi hai insegnato la vita e la morte, mi hai insegnato l’amore e il dolore. Mi hai dato fiducia prima ancora che mi venisse data da altri, dandomi i soldi in mano per andare a prendere il gelato da sola per la prima volta, senza dirmi “mi raccomando, la strada!” come diceva mamma, come diceva nonna ogni volta che uscivo a giocare nella strada semi-deserta dove vivevate. Mi hai dato testardaggine, forza e orgoglio, ma non mi hai fatto mai vedere la delusione per i miei insuccessi scolastici e non hai potuto vedere le mie rivincite, piccole, perché tra il prima e l’adesso, non c’è paragone, ma son pur sempre rivincite, ma se ti conoscevo abbastanza bene tu mi avresti sorriso dicendomi che ero stata brava, ma non come molti implicando un “potevi pensarci prima a cambiare” o “è il tuo lavoro”, ma credendoci davvero.
Te ne sei andato in quello che per me era un nuovo inizio, il primo giorno in una nuova scuola. Era un lunedì di settembre del duemilaundici, il dodici per esattezza. Io non so cosa è scattato dentro di me quando, ancora prima di rispondere a papà, ho capito che te n’eri andato, ma qualcosa è scattato e da quel giorno, ogni mio successo, te l’ho segretamente dedicato. Ogni obbiettivo che mi pongo per il mio futuro che sia esso un buon voto per la qualifica, la patente, delle medie alte a fine anno, un buon voto alla maturità, l’università, un lavoro part-time per iniziare ad essere indipendente, la laurea, un lavoro serio, la realizzazione personale, l’ho dedicato a te ancora prima che a me stessa e al mio orgoglio.
Queste cose, forse, avrei dovuto dirtele tempo fa, quando nonna era ancora viva, ma già non mi riconosceva più, quando tu stavi su per lei, perché hai sempre pensato prima a lei e dopo a te, e io ero capace solo di salutarti lasciandoti un bacio sulla fronte
 Qualche lacrima scappa, mi hai insegnato anche che anche il miglior guerriero può concedersi di essere fragile.

I've never knew what it was to be alone, no,
'cause you were always there for me
You were always there waiting
And I'll come home and I miss your face so
Smiling down on me
I close my eyes to see

And I know, you're a part of me
And it's your song that sets me free
I sing it while I feel I can't hold on
I sing tonight cause it comforts me”.

mercoledì 20 marzo 2013

L'ultimo giorno d'inverno.

Lo stress di una classe che non ti appartiene (o tu non appartieni a lei?), di una scuola che non ti piace in un posto che ti soffoca, perché non è né Milano né Firenze.
La malinconia della pioggia e la rabbia di chi parla senza pensare alle sue (non) azioni e ai tuoi sacrifici (di cuore).
Lo stress, la malinconia, i tendini della mano che urlano pietà e tu che sbotti di smetterla di chiamarti in duecento. Tu che sei stanca dei pranzi con gente che non sa parlare d’altro che di unghie e di fidanzati e lampade da fare. Tu che vorresti sorrisi e non domande di circostanza.
Tu che poi sono io che non piango per nessun motivo al mondo, perché sennò mi si arrugginiscono le guance.
E poi ci sei tu, tututu.
Tu che salutavi e poi non più, che compari quando uno è convinto che non ci sei e pass(av)i senza salutare, senza sorridere (sorridermi). Tu che, mentre piove, come me giri col cappuccio sotto l’acqua e senza ombrello.
Tu con gli occhi ghiaccio e il sorriso caldo come il sole a primavera quando ti scalda le braccia scoperte per metà. Tu che torni a salutare, a sorridere (a sorridermi) e fai bloccare una come me che alla primavera non ci si abitua mai, una che a questa danza strana non sa prenderci l’abitudine.
Tu che torni a salutare, a sorridere ed io che poco dopo metto un piede in una pozzanghera, ma non impreco, sorrido.
Sorrido.

(E’ l’ultimo giorno d’inverno per il calendario, per gli alberi che hanno già dei fiori e delle gemme, per me. E’ l’ultimo giorno d’inverno e vorrei che fosse l’ultimo giorno di primavera, ma vorrei che l’estate fossi tu e non un qualcosa che si sta scongelando dentro.)

martedì 12 marzo 2013

I heard that your dreams came true.

Ciao D.,
auguri, finalmente sei diventato papà (oggioggi? Ieri? Poche ore fa? Quando? Dove?) e io mi auguro che sia tutto apposto, che lei stia bene, ma soprattutto che siano bene le bambine e che il “nate premature” non crei problemi.
Auguri, so – senza averti parlato – quanto tu volessi diventare papà, nonostante tutto.

Un anno fa, o pochi giorni di più di “un anno fa”, stavamo entrambi piangendo una perdita. Diversa, totalmente forse, ma che ci ha sconvolti entrambi. Una perdita con un nome fa ancora più male.
Un anno non c’erano verità che bruciano più del sole su una ferita, più del fuoco sulla pelle, più di tutto. Ci sono verità che ti fanno diventare cattiva, dire “non ti può mancare. Non era lui” o peggio “per me non è mai esistito” che è peggio di fingere la sua morte, perché è rinnegare tutto, tutto. Ci sono verità che fanno male non perché ti colpevolizzi di non averle viste, ma perché non le hai mai pensate come false. Fiducia cieca, senza dubbi. Ci sono verità che fanno male perché ce le siamo negate e tante verità messe insieme e fanno rabbia, labbra morse a sangue, debolezza, ma su tutto c’è una che va oltre questo, oltre al dolore di averle scoperte. E’ la consapevolezza che le supereresti, senza dubbi.

Sei diventato papà, che effetto fa? Le hai strette? Hai potuto o sono state messe subito nell'incubatrice?
Hai pianto?
Sì, ne sono quasi sicura. Riesco quasi a vederti che ti sciogli e piangi per il miracolo della vita, per le tue figlie.
Le tue figlie.
Ora ci sono grandi responsabilità, scelte da fare, cose da cambiare.
Io non ti ho mai chiesto nulla, se non una volta di camminare sotto il sole con me per andare a prendere una crepes, ma ora vorrei chiederti un paio di cose.
Smettila, con tutto. Smettila non per te, per lei, per me o chiunque altro, smettila per quelle due bimbe dai nomi strani.
Cresci, per non cadere più nelle bugie e nei brutti giri. Cresci, ma non troppo, perché devi insegnare a loro a sognare.
Leggi loro una storia ogni sera, fin da ora. Inventale, se non trovi.
Abbracciale, ma si fermo quando dovrai sgridarle. Stringile forte come facevi con me quando ero debole.
Non farti vedere mai deluso da loro, mai. La delusione di un padre, per una figlia, è peggio di un amore ferito o finito.
Insegna loro che i soldi non sono tutto, insegnali la bellezza di una risata, delle corse sotto la pioggia e del sorriso.
Fai domande, noi figlie non parliamo, ma rispondiamo.
Sii presente e falle sentire belle, anche queste due cose.
E non mentirgli mai, almeno non a loro.
Insegnali il valore dell’amicizia, mi stavo dimenticando di dirti anche questo, perché nonostante le (enormi) bugie, tu l’hai insegnato a me.
Auguri, D..
Con tutto l’affetto possibile.

lunedì 4 marzo 2013

"Ora dimmi cos'hai espresso!"

Ho compiuto diciannove anni seduta su uno scalino con il nove che non voleva rimanere sul muffin e continuava a cadere macchiando le mie calze preferite con la cera.
Ho compiuto diciannove anni seduta su uno scalino con le amiche, quelle che purtroppo non riesci a vedere tutti i giorni, che mi hanno regalato dei sorrisi enormi, di quelli che ti porti dentro per tanto, tanto, tanto tempo. Li ho compiuti lì, davanti ai cancelli del Live Forum di Milano, in mezzo ad un mare di gente che aveva il viso stanco, infreddolito, ma su tutte le facce che ho visto c’era un sorriso, uno di quelli grandi. Ecco, tra quel mare di gente c’ero io con due muffin sfigatissimi due candeline enormi la mano con la sopra della cera ormai raffreddata e un cuore che non smetteva di battere ai duecento all’ora. C’ero io, i miei diciannove anni appena iniziati e niente desideri da esprimere soffiando sulle candeline, avevo (e ho) già tutto quello che volevo.