Le mancanze sono strane, stai bene per giorni, non le senti quasi, poi vedi una foto e ti ritrovi con il telefono in mano, un messaggio già scritto ad un passo dall'inviarlo, ma poi rileggi cosa dicono gli ultimi messaggi e allora cancelli senza inviare.
Sono strane, perché a tavola madre ti chiede cosa farai con tuo padre per Natale, le racconti che farai il solito giro di tutti gli anni, che i figli della cugina di papà sono già a chiedere di me e pensi a chi, invece, non ci sarà per scelta e allora è un'altra morsa.
A volte è bello essere in sessione d'esame, almeno c'è altro a cui pensare.
giovedì 22 dicembre 2016
domenica 18 dicembre 2016
Giovedì ho finito le lezioni del primo semestre, devo ancora staccare dalla parete di camera l'orario delle lezioni e quello dei treni (ho un grande rapporto con la tecnologia, ma su certe cose resto analogica), quindi in vista delle vacanze di Natale dove praticamente quasi tutto il gruppo migra al sud (tranne due, una migra a Nord e l'altra semplicemente fa ciao alla pendolarità, come me), abbiamo deciso che venerdì dovevamo salutarci come si deve. In sintesi, abbiamo tirato le cinque di mattina tutte insieme ed è stato coniato l'acronimo BAE (che non è né l'abbreviazione di Babe né Before Anyone Else o ancora Bitches Always Eating... anche se quest'ultimo, potrebbe pure andarci vicino), ma per una serie infinita di motivi, BAE resterà per tutti BAE, tranne per noi che eravamo insieme quella sera. Fatto sta che è stato un bel modo di salutarsi, in allegria, tra risate fino alle lacrime, cibo spazzatura e giochi trash.
Poi sono tornata a casa e mi sono ricordata che la prossima settimana è Natale e mi è presa la solita tristezza che mi prende tutti gli anni. Sono più di dieci anni che faccio fatica ad apprezzare pienamente il Natale, purtroppo sono i giorni in cui, da molti anni, mi rendo conto che la mia famiglia è solo un'accozzaglia di persone e tutte queste rimpatriate generali degli altri mi fanno un sacco di invidia. Non ho mai festeggiato un Natale con tutta la mia famiglia unita, non è mai stato possibile a causa di tutti i casini che ci sono sempre stati, ma negli anni sono arrivata ad un equilibrio abbastanza stabile che mi metteva meno tristezza (no, mettermi gioia no, troppo arduo), ma è andato a puttane. O meglio, è stato sbriciolato. Zia mia ha confermato quello che temevo: la vigilia e il "secondo giorno" (Santo Stefano, ndA) saremo solo io, lei, zio e padre. Basta. Tutti gli altri o saranno altrove o saranno ad evitare una o più persone, così del Natale di quando ero piccola resterà solo la zuppa nera per la Vigilia, ma tutte le persone presenti intorno al tavolo dei miei nonni non è rimasto quasi nessuno. La verità è che critico l'ipocrisia del Natale, ma mi piacerebbe tanto che la mia famiglia fosse ipocrita stringendosi intorno ad un tavolo, ma invece no. Siamo troppo onesti per buttare giù qualcosa anche solo per Natale.
Nota positiva, la madre di mia zia mi ha regalato due paia di calzini fatti a maglia dopo aver saputo che sono freddolosa. Teoricamente, dovevano essere il regalo di Natale, ma sono arrivata mentre zia li incartava, così sono già qua scartati. Sono la mia nuova gioia.
Poi sono tornata a casa e mi sono ricordata che la prossima settimana è Natale e mi è presa la solita tristezza che mi prende tutti gli anni. Sono più di dieci anni che faccio fatica ad apprezzare pienamente il Natale, purtroppo sono i giorni in cui, da molti anni, mi rendo conto che la mia famiglia è solo un'accozzaglia di persone e tutte queste rimpatriate generali degli altri mi fanno un sacco di invidia. Non ho mai festeggiato un Natale con tutta la mia famiglia unita, non è mai stato possibile a causa di tutti i casini che ci sono sempre stati, ma negli anni sono arrivata ad un equilibrio abbastanza stabile che mi metteva meno tristezza (no, mettermi gioia no, troppo arduo), ma è andato a puttane. O meglio, è stato sbriciolato. Zia mia ha confermato quello che temevo: la vigilia e il "secondo giorno" (Santo Stefano, ndA) saremo solo io, lei, zio e padre. Basta. Tutti gli altri o saranno altrove o saranno ad evitare una o più persone, così del Natale di quando ero piccola resterà solo la zuppa nera per la Vigilia, ma tutte le persone presenti intorno al tavolo dei miei nonni non è rimasto quasi nessuno. La verità è che critico l'ipocrisia del Natale, ma mi piacerebbe tanto che la mia famiglia fosse ipocrita stringendosi intorno ad un tavolo, ma invece no. Siamo troppo onesti per buttare giù qualcosa anche solo per Natale.
Nota positiva, la madre di mia zia mi ha regalato due paia di calzini fatti a maglia dopo aver saputo che sono freddolosa. Teoricamente, dovevano essere il regalo di Natale, ma sono arrivata mentre zia li incartava, così sono già qua scartati. Sono la mia nuova gioia.
venerdì 9 dicembre 2016
E passerà così un altro inverno freddo poi magari con l'estate mi riscaldo. Tanto già lo so che non cambierà un cazzo, io per te non esisto.
Ho avuto una bella settimana, quasi fortunata, forse saranno i postumi di Milano, delle amiche, dei Finley, la burrobirra e tutte queste cose insieme,però, nonostante il buon umore e i colpi di fortunata, ci sono stati momenti in questi sei giorni in cui a volte mi fermavo a pensare "questa cosa devo dirla ad amicofratello!", ma poi mi ricordavo che "non possiamo più essere amici" e allora arriva il vuoto, il senso di smarrimento.
Martedì ci siamo incontrati per strada, io andavo in una direzione e lui in quella opposta, ci siamo passati accanto, io avevo voglia di abbracciarlo, di prenderlo a calci, di chiedergli perché ha fatto quello che ci eravamo sempre giurati di non fare mai, lui invece mi è semplicemente passato accanto e, come se nulla fosse, come se non fosse uscito dalla mia vita senza darmi diritto di replica, mi ha salutato. Un misero "ciao", niente più, niente meno. Io l'ho guardato camminando, ho spostato lo sguardo e non ho risposto per orgoglio e perché non sarei stato in grado di salutare senza dimostrare che, sotto sotto, ci sto male per la sua scelta.
E ora è venerdì, domani sono sette giorni e fa ancora male, perché ho un'infinità di cose che vorrei scrivergli - l'ultima, ad esempio è che è uscita una canzone de Lo Stato Sociale, "quel gruppo che proprio non riesco a farti piacere", e che mi ricorda una persona che non penso quasi mai - e non posso, perché nonostante la rabbia, lo smarrimento, la tristezza, io per lui voglio solo la felicità e allora accetto che "non possiamo più essere amici", perché a scelto lei ed è giusto così, se è la strada per la sua felicità, però io ho comunque il diritto di sentirmi smarrita, perché ho perso chi mi aiutava a capire le cose, il mio punto di vista detto da un altro.
Ho ancora attaccato in camera il post-it con una sua frase, detta poco più che un anno fa, e non riesco a staccarla, nonostante sono convinta che dovrei toglierla.
Chissà come saremo tra un anno, chissà quante volte ci saremo incontrati per strada senza salutarci, chissà se ci saremo mai riparlati, chissà se tra un anno avrò finito di appuntarmi le cose da dirti e, soprattutto, chissà se da qui all'anno prossimo avrai mai provato, almeno per un attimo, un senso di mancanza.
Ho avuto una bella settimana, non è ancora finita, ma sarà che a me il periodo mette sempre tristezza, ma sento tutto amplificato.
Martedì ci siamo incontrati per strada, io andavo in una direzione e lui in quella opposta, ci siamo passati accanto, io avevo voglia di abbracciarlo, di prenderlo a calci, di chiedergli perché ha fatto quello che ci eravamo sempre giurati di non fare mai, lui invece mi è semplicemente passato accanto e, come se nulla fosse, come se non fosse uscito dalla mia vita senza darmi diritto di replica, mi ha salutato. Un misero "ciao", niente più, niente meno. Io l'ho guardato camminando, ho spostato lo sguardo e non ho risposto per orgoglio e perché non sarei stato in grado di salutare senza dimostrare che, sotto sotto, ci sto male per la sua scelta.
E ora è venerdì, domani sono sette giorni e fa ancora male, perché ho un'infinità di cose che vorrei scrivergli - l'ultima, ad esempio è che è uscita una canzone de Lo Stato Sociale, "quel gruppo che proprio non riesco a farti piacere", e che mi ricorda una persona che non penso quasi mai - e non posso, perché nonostante la rabbia, lo smarrimento, la tristezza, io per lui voglio solo la felicità e allora accetto che "non possiamo più essere amici", perché a scelto lei ed è giusto così, se è la strada per la sua felicità, però io ho comunque il diritto di sentirmi smarrita, perché ho perso chi mi aiutava a capire le cose, il mio punto di vista detto da un altro.
Ho ancora attaccato in camera il post-it con una sua frase, detta poco più che un anno fa, e non riesco a staccarla, nonostante sono convinta che dovrei toglierla.
Chissà come saremo tra un anno, chissà quante volte ci saremo incontrati per strada senza salutarci, chissà se ci saremo mai riparlati, chissà se tra un anno avrò finito di appuntarmi le cose da dirti e, soprattutto, chissà se da qui all'anno prossimo avrai mai provato, almeno per un attimo, un senso di mancanza.
Ho avuto una bella settimana, non è ancora finita, ma sarà che a me il periodo mette sempre tristezza, ma sento tutto amplificato.
lunedì 5 dicembre 2016
Abbiamo perso il conto delle botte prese dalla vita, ma dimmi un'altra volta che non è finita.
Sulla carta, era tutto bello e, a dire il vero, lo è stato, di questo ne sono certa, perché ho un enorme sorriso sulle labbra. C'è stata una grande amica che mi ha spostato e mi ha trascinato nella sua quotidianità, portandomi persino a vederla ballare (e Dio, quanto è bello il suo maestro di ballo!); ci sono state le risate, i "quando salirai, ti dovrò portare" mantenuti, i momenti di disagio, le quasi cadute, le corse per i ritardi. Ci sono state un'infinità di momenti belli, di amiche riviste, di abbracci in stazione, ma c'è stato anche un singolo momento che ha increspato tutto.
Un momento che è un messaggio mentre sei sulle scale mobili che ti conducono alla metro; è un messaggio lungo, ma il contenuto semplice riassumibile in "ti ho considerato una sorella per anni, ci siamo sostenuti sempre, ma tra te e la ragazza gelosa, scelgo lei. Ciao. Non siamo più amici", semplice, lineare, doloroso, una doccia fredda. Non c'erano state avvisaglie, era tutto normale, era tutto tranquillo, poi questo. Ci sono io sbigottita che guardo le tre persone che sono con me, che cerco di capire, ma non mi riesce. Ci sono io che poi vado avanti, cerco di fare finta di niente e quindi rido di gusto, mi godo l'attesa di un concerto, finisco le maglie che dobbiamo finire tra mille scazzi, ci sono io che insieme alla metà di mille mangio al fastfood prima di andare al locale dove mi ritrovo a ricevere abbracci appena mi fermo. E' bello, è un tornare a casa, in un posto dove ti senti te al cento per certo. Ieri sera ci sono io, quella vera al cento per cento, sono stata quella che guarda l'Amica per trovare il suo sostegno quando scorge una persona tra la folla, quella che ha offerto i biscotti alla mandorla che le avevano portato, quella che ha riso, ha fatto figure di merda. E poi sul palco c'erano loro, quella band che mi ha fatto compagnia per dieci anni e allora è facile che persino una persona come me che non piange mai si ritrova le lacrime che corrono sul viso. Ci sono canzoni a cui sono legata da sempre, che sono state le mie compagne nei momenti no, quella che abbiamo sentito cercando di abbracciarci tutte mentre due di noi piangevano perché portavano con sé un'infinita di momenti passati ("senza di loro io non avrei conosciuto voi", ha detto una di noi. Dio, quanto è vero!), c'è la canzone che porto tatuata in nero inchiostro su bianco pelle e poi c'è quella canzone. Quella che dopo il messaggio di quel pomeriggio non vorrei sentire, sulla quale vorrei rannicchiarmi a terra cercando di non sentirla, ma non si può e allora ci sono le prime note che si infilano sotto pelle, gli occhi che bruciano sempre di più e un'esplosione che accompagna "il tempo di un minuto per spiegarti che poi mi devi tutto il tempo che ho perso con te" che però ti fa capire chi è tua Amica, perché basta una spalla su cui piangere mentre la folla canta e allora sai di non essere sola, sai che quella band sul palco ti ha dato così tanto da averti concesso un grande numero di belle conoscenze, ma soprattutto un piccolo numero di amiche fidate che sa quanto un gesto del genere non sia quotidiano per te. E allora passa, passa tutto, sopravvivi, ritorni quella di prima, anche se un po' svuotata. Loro non sono una band, non sono una parte semplice della mia vita, ma sono il porto sicuro in cui so che posso gettare l'ancora e fermarmi, perché sono in acque sicure, tranquille. Sono quelli che in questi dieci anni con la musica mi hanno salvato più e più volte, quelli che mi hanno "regalato" persone senza le quali non sai proprio immaginarti, nonostante i chilometri. E' bello come dopo il concerto sia facile mettersi lì e chiacchiere, a ricevere abbracci, prese in giro, scroccare sigarette, piccoli spoiler per un futuro che non si sa quando sarà. Ci sono ricordi che non scriverò, che tengo preziosi, ma che ieri mi hanno salvato da crollare.
Qualche ora fa, in treno, ero stanca, sentivo il bisogno di tornare indietro,di non arrivare a casa, non volevo tornare alla quotidianità, alle cose che mi avrebbero oppresso, ma invece sono qua, scrivo, anche se viene meccanico e non troppo spontaneo, e sorrido, sorrido nonostante tutto e non potrei essere più grata che per questo sorriso enorme, sfacciato, arrogante che dice "la vita mi ha fatto un altro sgambetto, ma non sono sola, ho dei momenti felici da ricordare, posso andare avanti, nonostante questo, nonostante l'ansia, lo stress e tutto quello che capita".
(le foto con le amiche non si mettono qua, ma queste due possono pure starci.) |
venerdì 25 novembre 2016
And if the homework brings you down then we’ll throw it on the fire and take the car downtown.
Piccola piccola G., auguri!
E’ il 2016, è novembre, compi tre anni. Tre! A me sembra solo una settimana fa quando andai a trovare la tua mamma che non si sentiva bene, iniziavano le avvisaglie del travaglio e mi sembra ancora meno tempo da quando mi ha chiamato mio padre per dirmi che era in ospedale, che stavi nascendo e ancora meno da tuo zio, mio cugino, quello che è tanto grande, ma anche tanto buono, che mi chiama tutto emozionato e mi ripete “è nata, eh! E’ nata, tutto bene!” mentre sono su un autobus e fuori c’è un tramonto bellissimo. Me lo ricordo senza il bisogno di andare a rileggere, perché è stato uno dei lunedì migliori di tutta la mia vita. Il giorno dopo eri lì, in un lettino di ospedale piccola piccola con questi piedini lunghissimi che mi fecero sorridere tanto e che prendemmo bonariamente in giro con la tua mamma che, nonostante il parto del giorno prima, era bellissima – ma lo sai anche tu, la tua mamma è sempre bellissima.
Sai, piccola G., quando io ero piccola, ma più grande di te ora, sognavo tanto di diventare grande nella speranza di poter avere un bel rapporto con la tua mamma, qualcosa di più di un’amicizia e qualcosa di meno di quello tra sorelle. Mi sarebbe tanto piaciuto che, una volta cresciuta, potessi parlare con lei di tutto, trovare un’alleata in famiglia, una persona con cui potermi confrontare senza sentirmi la piccola di casa che deve sempre battersi per non essere considerata tale, una persona che potesse sapere chi sono, cosa faccio, che mi potesse dare qualche consiglio durante la mia vita. C’è stato un periodo, un periodo bello, in cui credevo che questo stesse davvero accadendo, era il periodo in cui lei aspettava te. Mi è capitato di fermarmi con lei a parlare e c’è stata una domenica dove mi misi ad aiutarla a preparare le bomboniere – quanto è brava la tua mamma a creare cose, quanti bei giochi ti ha creato? – e ci mettemmo a chiacchierare, mi ascoltò mentre le raccontavo di un’attività scolastica, di cosa stavo pensando di fare dopo le superiori, lei mi raccontò di cosa stava preparando per te, del vecchio mobile di nonna ridipinto e sistemato per metterci tutte le tue cose. Quando nascesti, fu bellissimo. Eravamo tutti così felici, così uniti, sembravamo davvero una famiglia, sai piccola G.? Io in quei giorni di novembre mi feci una promessa: sarei stata una brava cugina maggiore. Avrei giocato con te, come tuo zio faceva con me, come la tua mamma ha fatto quando mi disegnò delle figure di carta colorandole e plastificandole che io ho ancora, anche se tutte rovinate, ma avrei anche fatto in modo che quando tu saresti cresciuta avresti saputo che per qualsiasi cosa avevi una persona più grande pronta a darti un consiglio, una mano, non solo una compagnia di giochi. Anche se, diciamolo, per come stanno ora le cose, mi accontenterei anche di farti da compagnia di giochi.
Sai piccola G., sarebbe bello che gli adulti restassero un po’ bambini, perché questo vorrebbe dire una maggiore facilità a risolvere le diatribe, ma invece gli adulti fanno tutto più complicato e allora si portano dietro tanti rancori, tanta rabbia e quando esplode fa tanti danni, fa tanto male perché esplode rompendo gli argini come un fiume in piena sommergendo tutto quello che trova, portando via i bei ricordi, i momenti felici, perché non credere mai agli adulti quando parlano male, soprattutto quando sono persone della nostra famiglia, perché hanno la tendenza a ricordarsi sempre e solo le cose brutte, mai le cose belle. Non voglio, però, scrivere di questo, perché se un giorno le cose miglioreranno e tu potrai sentire – o leggere – queste parole, io voglio che tu ci ritrovi una persona che, purtroppo, non aveva modi di sapere di te, del tuo primo anno di asilo, di come te la cavi ora con imparare non una, ma due lingue, come va alla scuola di danza, se ci vai ancora. Non ho modi, perché purtroppo io come te sono rimasta incastrata nei brutti giochi dei grandi, ma ti penso spesso e mi chiedo spesso quale sia il tuo cartone preferito della Disney, se insegui ancora il cane inciampando, se ti addormenti con le favole, se ti piace disegnare, quale sia il tuo gioco preferito, se mangi tutto o se fai delle storie, se parli tanto o sei una bambina silenziosa, se sei affettuosa come me quando avevo la tua età o se sei più restia a socializzare; mi piacerebbe tanto sapere se hai qualche amichetta del cuore, se hai un amico immaginario, se chiedi mai – o se chiedi già - alla tua mamme e al tuo papà un fratellino o una sorellina, se hai già iniziato a dire “io da grande sarò” o se ti godi ancora a pieno la spensieratezza della tua età. Mi chiedo se mi ruberesti ancora gli occhiali da sole come quando facevi quando eri uno scricchiolino, se guarderesti ancora tutti con sospetto per poi scoppiare a ridere quando il tuo nonno ti fa un’espressione buffa – ti prego, non credere che sia una cattiva persona, è un uomo che facendo il padre ha sbagliato, ma nella vita sbagliamo tutti, sai piccola G.? – e se sorrideresti beata alla tua nonna – che è una persona meravigliosa, sai? Io sono tanto grata di averla come zia – e mi chiedo, soprattutto, se tu con me ci giocheresti, come fanno gli altri cugini, più grandi te, che nonostante mi vedano di rado ogni volta che mi vedono mi travolgono trascinandomi a giocare.
Nel momento in cui scrivo ho ventidue anni, faccio l’università, non ho un fidanzato, ho qualche vizio di troppo in cui in casa non sanno nulla, ma niente di serio solo qualche sigaretta di troppo, e passioni di cui non mi hanno chiesto nulla, porto i capelli cortissimi, una bambina di sette anni mi ha chiesto perché “metto così tanto trucco sugli occhi”. Ho obiettivi ambiziosi e sogni chiusi nei cassetti. Mi piacciono i lupi, ma anche i koala, amo i cartoni della Disney, ma non le principesse che subiscono la storia aspettando un principe che le salvi e mi piacciono tanto i personaggi dei fumetti, da sempre, anche se “sono da maschi”. Mangio tanto, ma solo quello che mi piace, tipo il pesce mi costringono a mangiarlo almeno una volta al mese, perché proprio non mi piace, a parte le acciughe fritte perché quelle ne mangerei sempre e anche tante, e mangio poche verdure, se potessi mi abbufferei sempre di dolci e di pizza, però è giusto mangiare tutto. E bevo troppo tè! Ecco, questa è una cosa che anche se ci dovessimo incontrare quando tu avrai tredici anni ed io trentadue, non cambierà, perché continuerò a bere troppo tè.
Sai piccola G., ho riguardato due foto di quando eri piccola piccola, avevi si e no un mese, i tuoi genitori me le hanno regalate per Natale – il primo con te, per la vigilia piangesti tanto, ma era bello passare quel Natale tutti insieme, mi sembrava di essere tornata ai Natali di quando ero piccola, tutti insieme, coi miei genitori ancora insieme e i nonni ancora qui – dicendomi che gli dispiaceva che non avessero una foto mia e tua da stampare per regalarmela. Non l’abbiamo mai fatta quella foto insieme, chissà se un domani gli adulti si decideranno ad essere meno caparbi, meno arrabbiati, meno rancorosi e si riavvicineranno, permettendoci di conoscerci. Per ora, ti saluto da qua con parole che dicono tanto e non dicono nulla, con il ricordo dell’ultima volta che ti ho vista impresso in testa, la voce della tua mamma – che, nonostante tutto, mi manca tantissimo – che ti dice “guarda G., ha le tue stesse scarpe!” e tu dici “no!”, che infondo hai ragione, le tue sono – erano? – di un altro colore.
Auguri piccola G., cresci, corri, inciampa, cadi, sorridi, ridi, piangi anche, ma crescendo ogni tanto pensa al mare, perché è da qua che vieni, da un posto di mare dove c’è chi ti vorrebbe tanto portare in spiaggia a correre spensierata, a fare un tuffo al mare d’estate. Auguri piccola G. da una cugina che vorrebbe tanto vederti crescere. Ti mando un bacio in fronte e un altro lo mando alla tua mamma, un saluto a tuo padre, perché io faccio tanto la dura, ma non so portare rancore come i grandi. Ti – vi – aspetto qua, ad un passo dal mare.
(E’ da ieri notte che sento le parole che, per l’urgenza di uscire, fanno fremere i polpastrelli e pizzicare gli occhi, perché a volte la vita ti regala emozioni bellissime che però, poi, le persone tendono a rovinare. La mia famiglia in questo è bravissima, sappiamo essere persone veramente brutte, veramente cattive, non so se ci mettiamo impegno o se abbiamo un’inclinazione naturale, ma so che succede, come succede che siamo estremamente fragili e io nei momenti di fragilità mi aggrappo alla rabbia, all’orgoglio, a dirmi che non posso scivolare giù, ma questa volta non voglio essere come loro, non voglio giocare sul tavolo del rancore, perché quest’urgenza di scrivere e queste notti a bagnar cuscini sono proprio frutto del rancore di altri, cos’ha portato di buono? Ho solo voglia di scrivere, perché chissà che un giorno non si risolva tutto e ci sia bisogno di un ricapitolare le cose per recuperare il tempo perduto, ma metti che nel farlo mi dimentico qualcosa? E allora ho deciso che le scriverò ogni volta che ne ho bisogno, perché non si sa mai.)
E’ il 2016, è novembre, compi tre anni. Tre! A me sembra solo una settimana fa quando andai a trovare la tua mamma che non si sentiva bene, iniziavano le avvisaglie del travaglio e mi sembra ancora meno tempo da quando mi ha chiamato mio padre per dirmi che era in ospedale, che stavi nascendo e ancora meno da tuo zio, mio cugino, quello che è tanto grande, ma anche tanto buono, che mi chiama tutto emozionato e mi ripete “è nata, eh! E’ nata, tutto bene!” mentre sono su un autobus e fuori c’è un tramonto bellissimo. Me lo ricordo senza il bisogno di andare a rileggere, perché è stato uno dei lunedì migliori di tutta la mia vita. Il giorno dopo eri lì, in un lettino di ospedale piccola piccola con questi piedini lunghissimi che mi fecero sorridere tanto e che prendemmo bonariamente in giro con la tua mamma che, nonostante il parto del giorno prima, era bellissima – ma lo sai anche tu, la tua mamma è sempre bellissima.
Sai, piccola G., quando io ero piccola, ma più grande di te ora, sognavo tanto di diventare grande nella speranza di poter avere un bel rapporto con la tua mamma, qualcosa di più di un’amicizia e qualcosa di meno di quello tra sorelle. Mi sarebbe tanto piaciuto che, una volta cresciuta, potessi parlare con lei di tutto, trovare un’alleata in famiglia, una persona con cui potermi confrontare senza sentirmi la piccola di casa che deve sempre battersi per non essere considerata tale, una persona che potesse sapere chi sono, cosa faccio, che mi potesse dare qualche consiglio durante la mia vita. C’è stato un periodo, un periodo bello, in cui credevo che questo stesse davvero accadendo, era il periodo in cui lei aspettava te. Mi è capitato di fermarmi con lei a parlare e c’è stata una domenica dove mi misi ad aiutarla a preparare le bomboniere – quanto è brava la tua mamma a creare cose, quanti bei giochi ti ha creato? – e ci mettemmo a chiacchierare, mi ascoltò mentre le raccontavo di un’attività scolastica, di cosa stavo pensando di fare dopo le superiori, lei mi raccontò di cosa stava preparando per te, del vecchio mobile di nonna ridipinto e sistemato per metterci tutte le tue cose. Quando nascesti, fu bellissimo. Eravamo tutti così felici, così uniti, sembravamo davvero una famiglia, sai piccola G.? Io in quei giorni di novembre mi feci una promessa: sarei stata una brava cugina maggiore. Avrei giocato con te, come tuo zio faceva con me, come la tua mamma ha fatto quando mi disegnò delle figure di carta colorandole e plastificandole che io ho ancora, anche se tutte rovinate, ma avrei anche fatto in modo che quando tu saresti cresciuta avresti saputo che per qualsiasi cosa avevi una persona più grande pronta a darti un consiglio, una mano, non solo una compagnia di giochi. Anche se, diciamolo, per come stanno ora le cose, mi accontenterei anche di farti da compagnia di giochi.
Sai piccola G., sarebbe bello che gli adulti restassero un po’ bambini, perché questo vorrebbe dire una maggiore facilità a risolvere le diatribe, ma invece gli adulti fanno tutto più complicato e allora si portano dietro tanti rancori, tanta rabbia e quando esplode fa tanti danni, fa tanto male perché esplode rompendo gli argini come un fiume in piena sommergendo tutto quello che trova, portando via i bei ricordi, i momenti felici, perché non credere mai agli adulti quando parlano male, soprattutto quando sono persone della nostra famiglia, perché hanno la tendenza a ricordarsi sempre e solo le cose brutte, mai le cose belle. Non voglio, però, scrivere di questo, perché se un giorno le cose miglioreranno e tu potrai sentire – o leggere – queste parole, io voglio che tu ci ritrovi una persona che, purtroppo, non aveva modi di sapere di te, del tuo primo anno di asilo, di come te la cavi ora con imparare non una, ma due lingue, come va alla scuola di danza, se ci vai ancora. Non ho modi, perché purtroppo io come te sono rimasta incastrata nei brutti giochi dei grandi, ma ti penso spesso e mi chiedo spesso quale sia il tuo cartone preferito della Disney, se insegui ancora il cane inciampando, se ti addormenti con le favole, se ti piace disegnare, quale sia il tuo gioco preferito, se mangi tutto o se fai delle storie, se parli tanto o sei una bambina silenziosa, se sei affettuosa come me quando avevo la tua età o se sei più restia a socializzare; mi piacerebbe tanto sapere se hai qualche amichetta del cuore, se hai un amico immaginario, se chiedi mai – o se chiedi già - alla tua mamme e al tuo papà un fratellino o una sorellina, se hai già iniziato a dire “io da grande sarò” o se ti godi ancora a pieno la spensieratezza della tua età. Mi chiedo se mi ruberesti ancora gli occhiali da sole come quando facevi quando eri uno scricchiolino, se guarderesti ancora tutti con sospetto per poi scoppiare a ridere quando il tuo nonno ti fa un’espressione buffa – ti prego, non credere che sia una cattiva persona, è un uomo che facendo il padre ha sbagliato, ma nella vita sbagliamo tutti, sai piccola G.? – e se sorrideresti beata alla tua nonna – che è una persona meravigliosa, sai? Io sono tanto grata di averla come zia – e mi chiedo, soprattutto, se tu con me ci giocheresti, come fanno gli altri cugini, più grandi te, che nonostante mi vedano di rado ogni volta che mi vedono mi travolgono trascinandomi a giocare.
Nel momento in cui scrivo ho ventidue anni, faccio l’università, non ho un fidanzato, ho qualche vizio di troppo in cui in casa non sanno nulla, ma niente di serio solo qualche sigaretta di troppo, e passioni di cui non mi hanno chiesto nulla, porto i capelli cortissimi, una bambina di sette anni mi ha chiesto perché “metto così tanto trucco sugli occhi”. Ho obiettivi ambiziosi e sogni chiusi nei cassetti. Mi piacciono i lupi, ma anche i koala, amo i cartoni della Disney, ma non le principesse che subiscono la storia aspettando un principe che le salvi e mi piacciono tanto i personaggi dei fumetti, da sempre, anche se “sono da maschi”. Mangio tanto, ma solo quello che mi piace, tipo il pesce mi costringono a mangiarlo almeno una volta al mese, perché proprio non mi piace, a parte le acciughe fritte perché quelle ne mangerei sempre e anche tante, e mangio poche verdure, se potessi mi abbufferei sempre di dolci e di pizza, però è giusto mangiare tutto. E bevo troppo tè! Ecco, questa è una cosa che anche se ci dovessimo incontrare quando tu avrai tredici anni ed io trentadue, non cambierà, perché continuerò a bere troppo tè.
Sai piccola G., ho riguardato due foto di quando eri piccola piccola, avevi si e no un mese, i tuoi genitori me le hanno regalate per Natale – il primo con te, per la vigilia piangesti tanto, ma era bello passare quel Natale tutti insieme, mi sembrava di essere tornata ai Natali di quando ero piccola, tutti insieme, coi miei genitori ancora insieme e i nonni ancora qui – dicendomi che gli dispiaceva che non avessero una foto mia e tua da stampare per regalarmela. Non l’abbiamo mai fatta quella foto insieme, chissà se un domani gli adulti si decideranno ad essere meno caparbi, meno arrabbiati, meno rancorosi e si riavvicineranno, permettendoci di conoscerci. Per ora, ti saluto da qua con parole che dicono tanto e non dicono nulla, con il ricordo dell’ultima volta che ti ho vista impresso in testa, la voce della tua mamma – che, nonostante tutto, mi manca tantissimo – che ti dice “guarda G., ha le tue stesse scarpe!” e tu dici “no!”, che infondo hai ragione, le tue sono – erano? – di un altro colore.
Auguri piccola G., cresci, corri, inciampa, cadi, sorridi, ridi, piangi anche, ma crescendo ogni tanto pensa al mare, perché è da qua che vieni, da un posto di mare dove c’è chi ti vorrebbe tanto portare in spiaggia a correre spensierata, a fare un tuffo al mare d’estate. Auguri piccola G. da una cugina che vorrebbe tanto vederti crescere. Ti mando un bacio in fronte e un altro lo mando alla tua mamma, un saluto a tuo padre, perché io faccio tanto la dura, ma non so portare rancore come i grandi. Ti – vi – aspetto qua, ad un passo dal mare.
(E’ da ieri notte che sento le parole che, per l’urgenza di uscire, fanno fremere i polpastrelli e pizzicare gli occhi, perché a volte la vita ti regala emozioni bellissime che però, poi, le persone tendono a rovinare. La mia famiglia in questo è bravissima, sappiamo essere persone veramente brutte, veramente cattive, non so se ci mettiamo impegno o se abbiamo un’inclinazione naturale, ma so che succede, come succede che siamo estremamente fragili e io nei momenti di fragilità mi aggrappo alla rabbia, all’orgoglio, a dirmi che non posso scivolare giù, ma questa volta non voglio essere come loro, non voglio giocare sul tavolo del rancore, perché quest’urgenza di scrivere e queste notti a bagnar cuscini sono proprio frutto del rancore di altri, cos’ha portato di buono? Ho solo voglia di scrivere, perché chissà che un giorno non si risolva tutto e ci sia bisogno di un ricapitolare le cose per recuperare il tempo perduto, ma metti che nel farlo mi dimentico qualcosa? E allora ho deciso che le scriverò ogni volta che ne ho bisogno, perché non si sa mai.)
sabato 19 novembre 2016
Io le amicizie le divido in due gruppi: quelle con cui posso andare a vedere Cristina D'Avena al centro commerciale cantando tutte le sigle dei cartoni (saltellando come una bambina quando annuncia Sailor Moon) e quelle con cui non lo potresti fare, perché si rifiuterebbero anche solo di venire con te.
Ovviamente, quelle del primo gruppo sono le persone a cui tengo di più e di cui posso fidarmi sempre e comunque, soprattutto quando compro una nuova tinta per capelli e di tutto quello che mi ha spiegato la commessa ricordo solo "diventerà un prugna se non decolori".
Ovviamente, quelle del primo gruppo sono le persone a cui tengo di più e di cui posso fidarmi sempre e comunque, soprattutto quando compro una nuova tinta per capelli e di tutto quello che mi ha spiegato la commessa ricordo solo "diventerà un prugna se non decolori".
domenica 13 novembre 2016
Oggi sono andata a trovare i mie zii ed ho avuto la piacevole sorpresa di trovarci i figli della cugina di mio padre e mio zio, due bambini di nove e sette anni. Due pesti scatenate che mi hanno trascinato a correre e giocare senza accettare un mio "sono troppo vecchia per rincorrervi in giardino!", ma ancora più bello è stato sentire bussare alla porta e vedere entrare in casa la loro nonna, mia zia. Quella zia sorella di mia nonna da cui andavo spessissimo da bambina, poi crescendo ho smesso di andarci spesso, ma la penso molto. Mi ha guardato, le si sono illuminati gli occhi e mi ha abbracciato stretta stretta. Mi ha chiesto, in una pausa caffè mentre le due pesti mi chiedevano di tornare a giocare, dell'università dicendomi che le avevano detto che andavo bene, mi ha ascoltato parlare e mi ha detto che mi vede cresciuta, mi vede più bella.
Sono a scrivere con gli occhi lucidi, perché mi ha ricordato nonna e nonna è una parte di me che manca parecchio, ma soprattutto perché mi era mancato tanto.
E sono stanca, quei bambini mi hanno demolito, ma mi sono portata a casa un disegno che, per me, ha un valore immenso.
Sono a scrivere con gli occhi lucidi, perché mi ha ricordato nonna e nonna è una parte di me che manca parecchio, ma soprattutto perché mi era mancato tanto.
E sono stanca, quei bambini mi hanno demolito, ma mi sono portata a casa un disegno che, per me, ha un valore immenso.
Questa sono io, attraverso gli occhi e la matita di una bambina di sette anni. |
giovedì 3 novembre 2016
Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po' molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli.
Sono stata assente per un po', perché come tante altre volte volevo evitare me stessa per capire cosa mi passasse per la testa - se ve lo steste chiedendo no, non l'ho capito e sono sempre più incasinata, ma questa è un'altra storia - e nel bel mezzo di questa mia pausa con me stessa, ci sono stati un cinque giorni e mezzo a Bologna da un'amica.
Bologna l'avevo vista di sfuggita un paio di volte, non mi ci ero mai fermata ad osservarla attentamente, non mi ero mai fermata a viverla un po' e forse per questo la sottovalutavo, perché nei giorni che sono stata lì mi sono innamorata del suo centro storico, dei suoi piccoli segreti (letteralmente, ne ha sette, qualcuno me l'hanno fatto scoprire e sono cose così carine!), del suo centro affollato, delle sue vie notturne piene di giovani. E' bella Bologna, è una signora elegante ma non è snob, è alla mano.
A Bologna sono andata con la scusa di un'amica che mi ospitava, un'amica di vecchissima data, conosciuta tramite internet insieme ad altre fan dei Finley (quante cose che mi ha dato una sola band!) e se molte altre persone non so neanche se siano vive o morte, io e lei siamo rimaste in contatto negli anni, diventando amiche nel vero senso della parola, anche se per vederci abbiamo dovuto aspettare che lei arrivasse all'università a Bologna e che riuscisse a venire a Pisa a trovare un'amica. Questo succedeva un anno fa, questa settimana ho vissuto in casa sua, con le sue coinquiline (la sua compagnia di stanza mi faceva scompisciare dal ridere, è così simpatica; una è di San Marino, timidissima, ma Dottor Strange ha fatto sbloccare persino lei, le altre due sono due chiaviche, ma non hanno rovinato nulla) dormendo su un materassino gonfiabile che è valso tante risate ed il titolo di coinquilina clandestina. E' stato bello recuperare anni di distanza stando così tanto insieme, ridendo come matte, girando la città e, soprattutto, visitando la mostra "David Bowie Is". A questa mostra non potevo che andare con lei, l'unica a capire e condividere la mia amore e passione per David e so che non sarei potuta andare con nessun altro perché bastava uno sguardo per capirci, per leggere l'ammirazione o per capire che si stava per canticchiare sottovoce qualche canzone. La mostra, comunque, mi ha lasciato davvero senza parole, è stupefacente, sembra di fare un viaggio dentro alla caleidoscopica vita artistica di Bowie e, arrivata all'ultima stanza che è gigantesca e ha quattro pareti di schermi che proiettano un concerto di David con i monitor che, alternativamente, svelano degli abiti celati dietro, mi ha fatto provare quella che viene chiamata la Sindrome di Stendhal (o Sindrome di Firenze). Mi sono sentita infinitamente piccola ed infinitamente grata ad un'artista che, solo grazie ad una mostra, ho sentito così vivo. E sono grata di avere avuto accanto un'amica che non solo a immortalato me che mi guardo intorno incantata (esiste una foto su Instagram, per provare questo mio smarrimento, IG che trovate linkato a lato, se volete farvi un giro a vedere questa espressione ebete e un nasone enorme) ma che capiva come mi sentissi. Dopo, per confermare che ero con l'amicizia, siamo scesi al piano inferiore del MAMbo per partecipare alla Experience Bowie: un'attività laboratoriale dove sono stati ricreate dei vestiti ispirati da quelli di Bowie, opera di ragazzi di un'accademia e la giacca che ho usato era così bella che volevo portarmela via, ti truccavano con trucchi ispirati a quelli di David (io ho optato per una saetta, la mia amica il terzo occhio alla Ziggy) per poi scattarti delle foto: una l'ho stampata e sto aspettando di attaccarla in camera, le altre prima o poi verranno caricate e, chissà, che non ne metta una qua solo per ricordarmi che le cose belle succedono. Siamo andate in giro io con una saetta sulla guancia e lei un terzo occhio dipinto in fronte, quella sera, come se non ci volessimo staccare da David.
Ho conosciuto belle persone, ho riso, ho visto angoli di città che mi sono rimasti nel cuore, ho creato bei ricordi che ho accuratamente catalogato nella mia memoria per i momenti no, ho fatto la promessa di vederci ad un concerto a Milano (dobbiamo pur festeggiare la nostra amicizia sotto il palco di chi ci ha fatto conoscere, no?) e ho staccato la spina per un po'. Ora sono tornata alla realtà, faccio nuovamente fatica a scrivere conversando con me stessa, ma queste cose andavano scritte.
Devo riuscire a mettere in ordine in un po' di cose prima che mi scombussolino troppo.
Bologna l'avevo vista di sfuggita un paio di volte, non mi ci ero mai fermata ad osservarla attentamente, non mi ero mai fermata a viverla un po' e forse per questo la sottovalutavo, perché nei giorni che sono stata lì mi sono innamorata del suo centro storico, dei suoi piccoli segreti (letteralmente, ne ha sette, qualcuno me l'hanno fatto scoprire e sono cose così carine!), del suo centro affollato, delle sue vie notturne piene di giovani. E' bella Bologna, è una signora elegante ma non è snob, è alla mano.
A Bologna sono andata con la scusa di un'amica che mi ospitava, un'amica di vecchissima data, conosciuta tramite internet insieme ad altre fan dei Finley (quante cose che mi ha dato una sola band!) e se molte altre persone non so neanche se siano vive o morte, io e lei siamo rimaste in contatto negli anni, diventando amiche nel vero senso della parola, anche se per vederci abbiamo dovuto aspettare che lei arrivasse all'università a Bologna e che riuscisse a venire a Pisa a trovare un'amica. Questo succedeva un anno fa, questa settimana ho vissuto in casa sua, con le sue coinquiline (la sua compagnia di stanza mi faceva scompisciare dal ridere, è così simpatica; una è di San Marino, timidissima, ma Dottor Strange ha fatto sbloccare persino lei, le altre due sono due chiaviche, ma non hanno rovinato nulla) dormendo su un materassino gonfiabile che è valso tante risate ed il titolo di coinquilina clandestina. E' stato bello recuperare anni di distanza stando così tanto insieme, ridendo come matte, girando la città e, soprattutto, visitando la mostra "David Bowie Is". A questa mostra non potevo che andare con lei, l'unica a capire e condividere la mia amore e passione per David e so che non sarei potuta andare con nessun altro perché bastava uno sguardo per capirci, per leggere l'ammirazione o per capire che si stava per canticchiare sottovoce qualche canzone. La mostra, comunque, mi ha lasciato davvero senza parole, è stupefacente, sembra di fare un viaggio dentro alla caleidoscopica vita artistica di Bowie e, arrivata all'ultima stanza che è gigantesca e ha quattro pareti di schermi che proiettano un concerto di David con i monitor che, alternativamente, svelano degli abiti celati dietro, mi ha fatto provare quella che viene chiamata la Sindrome di Stendhal (o Sindrome di Firenze). Mi sono sentita infinitamente piccola ed infinitamente grata ad un'artista che, solo grazie ad una mostra, ho sentito così vivo. E sono grata di avere avuto accanto un'amica che non solo a immortalato me che mi guardo intorno incantata (esiste una foto su Instagram, per provare questo mio smarrimento, IG che trovate linkato a lato, se volete farvi un giro a vedere questa espressione ebete e un nasone enorme) ma che capiva come mi sentissi. Dopo, per confermare che ero con l'amicizia, siamo scesi al piano inferiore del MAMbo per partecipare alla Experience Bowie: un'attività laboratoriale dove sono stati ricreate dei vestiti ispirati da quelli di Bowie, opera di ragazzi di un'accademia e la giacca che ho usato era così bella che volevo portarmela via, ti truccavano con trucchi ispirati a quelli di David (io ho optato per una saetta, la mia amica il terzo occhio alla Ziggy) per poi scattarti delle foto: una l'ho stampata e sto aspettando di attaccarla in camera, le altre prima o poi verranno caricate e, chissà, che non ne metta una qua solo per ricordarmi che le cose belle succedono. Siamo andate in giro io con una saetta sulla guancia e lei un terzo occhio dipinto in fronte, quella sera, come se non ci volessimo staccare da David.
Ho conosciuto belle persone, ho riso, ho visto angoli di città che mi sono rimasti nel cuore, ho creato bei ricordi che ho accuratamente catalogato nella mia memoria per i momenti no, ho fatto la promessa di vederci ad un concerto a Milano (dobbiamo pur festeggiare la nostra amicizia sotto il palco di chi ci ha fatto conoscere, no?) e ho staccato la spina per un po'. Ora sono tornata alla realtà, faccio nuovamente fatica a scrivere conversando con me stessa, ma queste cose andavano scritte.
Devo riuscire a mettere in ordine in un po' di cose prima che mi scombussolino troppo.
lunedì 17 ottobre 2016
A volte penso che le persone siano un po' strane, a volte penso che lo siano del tutto.
C'è F., il mio amico-compagno di corso di cui ho scritto già altre volte (la persona xanax, insomma), che a volte penso sia un po' strano, altre penso lo sia del tutto.
Oggi è uno dei giorni in cui penso lo sia del tutto, perché ci incontriamo in aula, quella pienissima di Storia e critica del cinema, passa a salutare cercando un posto ed è, per me, la calma, come al solito. Sono belle le persone xanax per le persone ansiose, ma questa è un'altra storia.
Oggi sono arrivata prima a lezione, c'era tempo di scendere a fumarsi una sigaretta, le altre non fumano, scendo da sola, tanto non mi pesa più fare qualcosa da sola, così prendo il mio pacchetto (per la cronaca, devo capire perché mi capita sempre quello con la foto del piede malato) e scendo. Sono fuori a fumare, quando fumo dovete sapere che, a volte, mi isolo, ci siamo solo io e la sigaretta, oggi era una di queste giornate. Così, quando esce F., io sono tra le nuvole, neanche lo vedo arrivare, si avvicina, mi dà un colpetto con i filtri sulla fronte sorridendomi dicendo "goordmorning, princess".
"Good morning, princess".
Alle quattro del pomeriggio.
A me che della principessa neanche l'ombra (team Mulan che fa il culo a tutti o Megara che si salva da sola, al massimo).
"Good morning, princess".
Ho sorriso, inebetita.
Lui è andato a parlare con un suo amico, io cercavo di capirne il senso.
Niente. Il vuoto.
Dopo lezione, tutto era come prima, lui che mi racconta delle sue disavventure con la rete internet, gli altri che parlano, io che gli dico che gli porto io un adattatore per la presa per il caricabatteria. Tutto normale, di quella frase senza senso neanche l'ombra.
Le amiche fangirleggiano, un'amica ha capito che io non capisco i suoi comportamenti e vado in crisi, le amiche dell'università che non sanno nulla.
Comunque sono sveglia dalle 5:40, non riesco a scrivere, ho Pechino Express in sottofondo (scusate, ma io sono fan del trash, Tina sempre nel cuore, soprattutto ora su per un vulcano. Io sarei già morta!) e ho sonno. Tanto. Forse dovrei andare a letto e dimenticare tutto.
Oggi è uno dei giorni in cui penso lo sia del tutto, perché ci incontriamo in aula, quella pienissima di Storia e critica del cinema, passa a salutare cercando un posto ed è, per me, la calma, come al solito. Sono belle le persone xanax per le persone ansiose, ma questa è un'altra storia.
Oggi sono arrivata prima a lezione, c'era tempo di scendere a fumarsi una sigaretta, le altre non fumano, scendo da sola, tanto non mi pesa più fare qualcosa da sola, così prendo il mio pacchetto (per la cronaca, devo capire perché mi capita sempre quello con la foto del piede malato) e scendo. Sono fuori a fumare, quando fumo dovete sapere che, a volte, mi isolo, ci siamo solo io e la sigaretta, oggi era una di queste giornate. Così, quando esce F., io sono tra le nuvole, neanche lo vedo arrivare, si avvicina, mi dà un colpetto con i filtri sulla fronte sorridendomi dicendo "goordmorning, princess".
"Good morning, princess".
Alle quattro del pomeriggio.
A me che della principessa neanche l'ombra (team Mulan che fa il culo a tutti o Megara che si salva da sola, al massimo).
"Good morning, princess".
Ho sorriso, inebetita.
Lui è andato a parlare con un suo amico, io cercavo di capirne il senso.
Niente. Il vuoto.
Dopo lezione, tutto era come prima, lui che mi racconta delle sue disavventure con la rete internet, gli altri che parlano, io che gli dico che gli porto io un adattatore per la presa per il caricabatteria. Tutto normale, di quella frase senza senso neanche l'ombra.
Le amiche fangirleggiano, un'amica ha capito che io non capisco i suoi comportamenti e vado in crisi, le amiche dell'università che non sanno nulla.
Comunque sono sveglia dalle 5:40, non riesco a scrivere, ho Pechino Express in sottofondo (scusate, ma io sono fan del trash, Tina sempre nel cuore, soprattutto ora su per un vulcano. Io sarei già morta!) e ho sonno. Tanto. Forse dovrei andare a letto e dimenticare tutto.
giovedì 6 ottobre 2016
A bite of silly happiness #4.
L'andamento della mattinata mi ha convinto che il giovedì è il giorno della sfiga, perché anche oggi sembra non andare bene nulla, dal fatto che mi sono alzata presto per trovare parcheggio ed ho girato un'ora (no, non è un'esagerazione, è letterale) perdendo il primo treno utile per andare a Pisa, per poi finire a parcheggiare a quasi un chilometro dalla stazione per una strada orribile da fare a piedi; dopo, decido di ammazzare l'attesa del treno andando a fare colazione, mi si rompe la tasca porta monete del portafoglio e, dopo questo, al tabacchino mi hanno dato il pacchetto col piede marcio (che tra tutte le foto sui pacchetti di sigarette, è la peggiore) facendomi seriamente pensare di imparare a farmi i drum per passare al tabacco.
Arrivo a Pisa, in ritardo ovviamente, unica gioia è un'amica che mi regala un giornale su cui c'è un trafiletto su Bowie (oramai, hanno capito tutti quanto lo amo). Fine lezione, tutti a mensa, io me ne torno a casa. Arrivo, macchina... rischio un incidente, perché ovviamente la gente esce dagli stop con poca visibilità buttandosi costringendoti ad inchiodare (grazi riflessi pronti). Pomeriggio a mettermi in pari con gli appunti di una lezione che ho perso, con la testa che mi si spacca in due dal mal di testa.
In tutto questo, madre aveva da andare a vedere un appartamento da pulire. E' l'appartamento di uno scrittore ed editore, con una casa che madre ha descritto molto elegante, anche se vecchia, una scrivania disordinata con sopra un sacco di libri e fogli scritti, ma la cosa che ha notato quasi subito, guardando lo studio, è stata una libreria a muro grande quanto una parete che, a detta di madre, era più grande della parete di fondo di camera mia. Lì, le è scappato detto che leggo, così questo sconosciuto ha voluto sapere cosa leggo, se preferisco il cartaceo o se sono della nuova generazione degli e-Book, cosa faccio all'università. Alla fine di questo interrogatorio su di me, le ha dato un suo libro da portarmi con tanto di dedica (una semplice data e la scritta "Per Mara" seguita dalla sua firma), raccomandandosi di dirmi che voleva sapere cosa ne pensassi.
Ecco, io non so né che faccia abbia né come sia il libro, ma sorrido. Tanto.
Arrivo a Pisa, in ritardo ovviamente, unica gioia è un'amica che mi regala un giornale su cui c'è un trafiletto su Bowie (oramai, hanno capito tutti quanto lo amo). Fine lezione, tutti a mensa, io me ne torno a casa. Arrivo, macchina... rischio un incidente, perché ovviamente la gente esce dagli stop con poca visibilità buttandosi costringendoti ad inchiodare (grazi riflessi pronti). Pomeriggio a mettermi in pari con gli appunti di una lezione che ho perso, con la testa che mi si spacca in due dal mal di testa.
In tutto questo, madre aveva da andare a vedere un appartamento da pulire. E' l'appartamento di uno scrittore ed editore, con una casa che madre ha descritto molto elegante, anche se vecchia, una scrivania disordinata con sopra un sacco di libri e fogli scritti, ma la cosa che ha notato quasi subito, guardando lo studio, è stata una libreria a muro grande quanto una parete che, a detta di madre, era più grande della parete di fondo di camera mia. Lì, le è scappato detto che leggo, così questo sconosciuto ha voluto sapere cosa leggo, se preferisco il cartaceo o se sono della nuova generazione degli e-Book, cosa faccio all'università. Alla fine di questo interrogatorio su di me, le ha dato un suo libro da portarmi con tanto di dedica (una semplice data e la scritta "Per Mara" seguita dalla sua firma), raccomandandosi di dirmi che voleva sapere cosa ne pensassi.
Ecco, io non so né che faccia abbia né come sia il libro, ma sorrido. Tanto.
mercoledì 5 ottobre 2016
di delusioni, amicizia, università ed altri demoni.
Questo è il cinquecentesimo post del blog, mi sarebbe piaciuto che fosse un post bello e spensierato, ma non lo sarà. O forse sì, ma non completamente.
Togliamoci il dente: alla radio non è andata. C'est la vie, direbbero i francesi. Cos'è successo? Non ho ricevuto risposta, altre persone sì, quindi non mi hanno presa. Ci sono rimasta male? Sì. Tanto? Abbastanza, ma non tanto perché non mi hanno preso per nessuno dei ruoli in cui mi ero candidata, quello l'avevo messo in conto, ma perché tra la gente presa c'è uno del mio gruppo in università e lui è uno che, davvero, se hanno preso lui e non altra gente, poveri noi. Sia chiaro, non sono quel tipo di volpe che non arrivando all'uva dice che è acerba, al contrario sono quel tipo di volpe che ti dice "è matura, ma sono troppo bassa per arrivarci", quindi non ho problemi a dire "lui non se lo meritava, l'hanno preso perché ha avuto il culo di candidarsi per argomenti dove c'era meno gente", perché io ve lo farei vedere, lui: un tappo saccente so-tutto-io che quando ti parla sembra che lui sia sempre migliore di te (mentre mi facevo convalidare un voto, J. l'ha sentito dire "ah, ha preso 28? Non me lo sarei aspettato" con tono di stizza. Simpatico, considerando che parte dell'esame te l'ho spiegato io) e lui vuole scrivere di attualità, ma se ci parli di questo argomento se ne esce con frasi fatte, ma ancora peggio inizia un discorso, fa giri immensi e... e niente, non ha fine quello che dice. Per andare da A a B, passa per tutto l'alfabeto e non arriva a B. E, ancora, se ci parli e non hai la sua stessa identica idea, si infervora, ma non come capita a me che mi infervoro solo se vedo che davanti ho persone chiuse che non accettano un'idea diversa o che argomentano con luoghi comuni, lui si infervora con cattiveria. Una volta in treno mi chiese perché, qualche tempo prima, avessi detto che credo fermamente che siamo lontani dalla parità dei sessi, sia a livelli più terra terra e di relazioni quotidiane che su piani più seri, io bella tranquilla, siccome le mie idee hanno basi solide, gli ho spiegato tutto e lui se ne uscito con frasi che neanche mio nonno che oramai avrebbe novant'anni, più le smontavo con senso critico, più si incazzava. Io voglio ridere quando lo manderanno a fare l'inviato e si avvicinerà con quella sua camminata saltellante che, come apre bocca, sembra che debba aggredirti e riderò anche, visto che giusto qualche giorno fa ha sancito che fare le lezioni delle otto e mezzo da non frequentate "perché io non lo prendo il treno prima, solo perché la gente arriva presto e non trovo posto" (notare; lezione alle 8:30, lui arriva in stazione alle 8:10 ad un quarto d'ora a piedi dall'aula...). E vabbe, questo era uno sfogo, sono ancora un po' delusa perché ci speravo tanto, ma è andata così. Era solo un primo tentativo, troverò altre occasioni.
Ho imparato a vedere il lato positivo delle cose, sapete? Anche in queste situazioni di delusione, tipo questa volta ho capito che chi è amico ti sostiene anche quando prendi una delusione e pensi di non valere un cazzo, ricordandoti che non è vero, prima di tutto, e che c'è in seconda parte. C'è chi me lo ricorda da lontano e chi più da vicino, svoltandomi la giornata incontrandoci in stazione per poi venire a cena da me, tornando in un revival dei primi anni delle superiori. E basta quello a distrarti, a strapparti un sorriso. Certa gente, anche se passano gli anni, continua a rimanere l'unica fortuna degli anni bui dell'adolescenza. E anche in università, con le amicizie, va bene. Ricordo un anno fa, prima di iniziare, che avevo paura di non farmi neanche un amico (o un'amica), di finire a vivere le lezioni come vivevo le superiori: rapporti superficiali destinati a perdersi al suono della campana (e, anche quelle che sembravano più amiche, finite le superiori chi le ha più viste?). Un anno dopo, scrivo queste righe e sorrido, perché con chi più con chi meno sono nate delle simil amicizie. C'è chi ho sentito anche durante l'estate, riuscendo pure a vederci, chi da quando ho iniziato nuovamente le lezioni lo vedo più di mia madre e passiamo il tempo a ridere, ogni tanto a dirci cose serie; c'è chi si mette a insegnarmi un drum, perché un po' stufo che quando sono senza sigarette e siamo al bar gli chiedo di girarmeli - anche se mica lo dice - e un po' perché lo chiedo io, decisa a risparmiare (stessa persona che, fa mezzi inviti che mi strappano un sorriso). Va così bene che venerdì mi fermo a Pisa per una serata tra amiche per una maratona Wes Anderson - Fincher (tra l'altro, i film di quest'ultimo li ho già visti, ma li rivedo volentieri), mi sento spaesata, perché in sette anni di superiori sono stata invitata fuori ben poche volte e da ben poche persone, ora mi ritrovo catapultata in un mondo di "venite a dormire qui?", "facciamo qualcosa questo giovedì?", "esci in *inserirenomediunpostoinzona*? Sai che l'hanno fatto nuovo, un venerdì o un sabato si potrebbe organizzare di andare tutti insieme" e cose così e, sarà anche che da quando ho chiuso qualche ponte, mi erano rimaste ben poche amicizie vicine, poi le persone care sono tutte lontane, io sorrido come un ebete e accetto gli inviti, con ansia, ma li accetto anche quando sono solo ipotesi e mi bastano così per sorridere un po'.
L'università è ripresa a pieno ritmo, l'orario è quello che è con tre levatacce all'alba di fila, un giorno con quattro ore di buco, un giorno con un'ora sola nel mezzo della giornata (di giovedì, giorno in cui dove vado a prendere il treno c'è il mercato e non si trova parcheggio), però i corsi sono okay, chi più chi meno, tra l'altro quello che pensavo essere noioso e micidiale per l'orario in prima mattinata, mi piace un sacco e ascolto ogni singola parola sulla comunicazione spiegata da un professore che, l'abbiamo ammesso unanimemente, sa mantenere davvero viva l'attenzione spiegando bene.
Continuo a scrivere storie che quasi nessuno ha il diritto di leggere, mi impegno a dare senso a trame e personaggi che ho in testa, mi era mancato così tanto questo aspetto della scrittura che girare con un quadernino di PizzaBo nello zaino, perché sia mai che mi venga un'idea e vada persa, mi strappa sempre un sorriso nei momenti bui, soprattutto quando c'è di mezzo Trenitalia che regala solo grandi disagi e avventure.
La mia ansia si fa sentire più del solito, ultimamente, la gestisco, ma è onnipresente; spesso mi torna in mente il disegno e la descrizione data a Toby Allen nella sua rappresentazione di vari disturbi psichici come mostri. La descrizione e la rappresentazione che dà dell'ansia è perfetta (per me). Ci convivo, ma se ogni tanto se ne andasse mi farebbe felice, ecco.
E' il cinquecentesimo post del blog, è passato così tanto tempo dal primo, sono passate così tante me da allora. Pensavo che questo post sarebbe stato più triste, invece non è poi così tanto cupo.
Togliamoci il dente: alla radio non è andata. C'est la vie, direbbero i francesi. Cos'è successo? Non ho ricevuto risposta, altre persone sì, quindi non mi hanno presa. Ci sono rimasta male? Sì. Tanto? Abbastanza, ma non tanto perché non mi hanno preso per nessuno dei ruoli in cui mi ero candidata, quello l'avevo messo in conto, ma perché tra la gente presa c'è uno del mio gruppo in università e lui è uno che, davvero, se hanno preso lui e non altra gente, poveri noi. Sia chiaro, non sono quel tipo di volpe che non arrivando all'uva dice che è acerba, al contrario sono quel tipo di volpe che ti dice "è matura, ma sono troppo bassa per arrivarci", quindi non ho problemi a dire "lui non se lo meritava, l'hanno preso perché ha avuto il culo di candidarsi per argomenti dove c'era meno gente", perché io ve lo farei vedere, lui: un tappo saccente so-tutto-io che quando ti parla sembra che lui sia sempre migliore di te (mentre mi facevo convalidare un voto, J. l'ha sentito dire "ah, ha preso 28? Non me lo sarei aspettato" con tono di stizza. Simpatico, considerando che parte dell'esame te l'ho spiegato io) e lui vuole scrivere di attualità, ma se ci parli di questo argomento se ne esce con frasi fatte, ma ancora peggio inizia un discorso, fa giri immensi e... e niente, non ha fine quello che dice. Per andare da A a B, passa per tutto l'alfabeto e non arriva a B. E, ancora, se ci parli e non hai la sua stessa identica idea, si infervora, ma non come capita a me che mi infervoro solo se vedo che davanti ho persone chiuse che non accettano un'idea diversa o che argomentano con luoghi comuni, lui si infervora con cattiveria. Una volta in treno mi chiese perché, qualche tempo prima, avessi detto che credo fermamente che siamo lontani dalla parità dei sessi, sia a livelli più terra terra e di relazioni quotidiane che su piani più seri, io bella tranquilla, siccome le mie idee hanno basi solide, gli ho spiegato tutto e lui se ne uscito con frasi che neanche mio nonno che oramai avrebbe novant'anni, più le smontavo con senso critico, più si incazzava. Io voglio ridere quando lo manderanno a fare l'inviato e si avvicinerà con quella sua camminata saltellante che, come apre bocca, sembra che debba aggredirti e riderò anche, visto che giusto qualche giorno fa ha sancito che fare le lezioni delle otto e mezzo da non frequentate "perché io non lo prendo il treno prima, solo perché la gente arriva presto e non trovo posto" (notare; lezione alle 8:30, lui arriva in stazione alle 8:10 ad un quarto d'ora a piedi dall'aula...). E vabbe, questo era uno sfogo, sono ancora un po' delusa perché ci speravo tanto, ma è andata così. Era solo un primo tentativo, troverò altre occasioni.
Ho imparato a vedere il lato positivo delle cose, sapete? Anche in queste situazioni di delusione, tipo questa volta ho capito che chi è amico ti sostiene anche quando prendi una delusione e pensi di non valere un cazzo, ricordandoti che non è vero, prima di tutto, e che c'è in seconda parte. C'è chi me lo ricorda da lontano e chi più da vicino, svoltandomi la giornata incontrandoci in stazione per poi venire a cena da me, tornando in un revival dei primi anni delle superiori. E basta quello a distrarti, a strapparti un sorriso. Certa gente, anche se passano gli anni, continua a rimanere l'unica fortuna degli anni bui dell'adolescenza. E anche in università, con le amicizie, va bene. Ricordo un anno fa, prima di iniziare, che avevo paura di non farmi neanche un amico (o un'amica), di finire a vivere le lezioni come vivevo le superiori: rapporti superficiali destinati a perdersi al suono della campana (e, anche quelle che sembravano più amiche, finite le superiori chi le ha più viste?). Un anno dopo, scrivo queste righe e sorrido, perché con chi più con chi meno sono nate delle simil amicizie. C'è chi ho sentito anche durante l'estate, riuscendo pure a vederci, chi da quando ho iniziato nuovamente le lezioni lo vedo più di mia madre e passiamo il tempo a ridere, ogni tanto a dirci cose serie; c'è chi si mette a insegnarmi un drum, perché un po' stufo che quando sono senza sigarette e siamo al bar gli chiedo di girarmeli - anche se mica lo dice - e un po' perché lo chiedo io, decisa a risparmiare (stessa persona che, fa mezzi inviti che mi strappano un sorriso). Va così bene che venerdì mi fermo a Pisa per una serata tra amiche per una maratona Wes Anderson - Fincher (tra l'altro, i film di quest'ultimo li ho già visti, ma li rivedo volentieri), mi sento spaesata, perché in sette anni di superiori sono stata invitata fuori ben poche volte e da ben poche persone, ora mi ritrovo catapultata in un mondo di "venite a dormire qui?", "facciamo qualcosa questo giovedì?", "esci in *inserirenomediunpostoinzona*? Sai che l'hanno fatto nuovo, un venerdì o un sabato si potrebbe organizzare di andare tutti insieme" e cose così e, sarà anche che da quando ho chiuso qualche ponte, mi erano rimaste ben poche amicizie vicine, poi le persone care sono tutte lontane, io sorrido come un ebete e accetto gli inviti, con ansia, ma li accetto anche quando sono solo ipotesi e mi bastano così per sorridere un po'.
L'università è ripresa a pieno ritmo, l'orario è quello che è con tre levatacce all'alba di fila, un giorno con quattro ore di buco, un giorno con un'ora sola nel mezzo della giornata (di giovedì, giorno in cui dove vado a prendere il treno c'è il mercato e non si trova parcheggio), però i corsi sono okay, chi più chi meno, tra l'altro quello che pensavo essere noioso e micidiale per l'orario in prima mattinata, mi piace un sacco e ascolto ogni singola parola sulla comunicazione spiegata da un professore che, l'abbiamo ammesso unanimemente, sa mantenere davvero viva l'attenzione spiegando bene.
Continuo a scrivere storie che quasi nessuno ha il diritto di leggere, mi impegno a dare senso a trame e personaggi che ho in testa, mi era mancato così tanto questo aspetto della scrittura che girare con un quadernino di PizzaBo nello zaino, perché sia mai che mi venga un'idea e vada persa, mi strappa sempre un sorriso nei momenti bui, soprattutto quando c'è di mezzo Trenitalia che regala solo grandi disagi e avventure.
La mia ansia si fa sentire più del solito, ultimamente, la gestisco, ma è onnipresente; spesso mi torna in mente il disegno e la descrizione data a Toby Allen nella sua rappresentazione di vari disturbi psichici come mostri. La descrizione e la rappresentazione che dà dell'ansia è perfetta (per me). Ci convivo, ma se ogni tanto se ne andasse mi farebbe felice, ecco.
E' il cinquecentesimo post del blog, è passato così tanto tempo dal primo, sono passate così tante me da allora. Pensavo che questo post sarebbe stato più triste, invece non è poi così tanto cupo.
giovedì 22 settembre 2016
Il quattrocentonovantanovesimo post del blog sembra scritto dalla me di cinque anni (e questo è il titolo più brutto di sempre).
Questa prima settimana del secondo semestre è andata, io, tra mille disavventure, sono arrivata alla fine sorridendo rendendomi conto che mi era mancata la quotidianità delle lezioni e che non vedo l'ora di riprendere il ritmo, anche se questo vorrà dire puntare la sveglia prestissimo, prendere la macchina, arrivare in stazione, trovare un parcheggio (oggi ho girato a vuoto per mezz'ora, poi ho avuto la botta di culo, no, non ho trovato parcheggio, ho solo scoperto che mia madre era nelle vicinanze e le ho smollato la mia macchina facendomi venire a prendere oggi pomeriggio, sennò a quest'ora ero ancora a girare), andare in stazione per prendere un treno per Pisa. Mi mancava perché mi piace davvero, per me che ho vissuto male tutto il periodo delle superiori è una cosa nuova provare piacere per andare a seguire delle lezioni, anche quelle che magari sono più pallose (che impossibile che anche quelle che non ho iniziato siano tutte interessanti), perché mi piace dove sono, quello che faccio e le persone con cui sono. Già, le persone con cui sono.
Lunedì pomeriggio è stato il giorno del rivedersi, del ritrovarsi dopo l'estate, chi tornato a Pisa a fare la vita da fuori sede (l'amica siciliana continua a sembrare più irlandese che siciliana, mi consola solo lei per il mio essere bianco neve sotto al sole), chi a quella da fuori sede in versione light (quella de "il venerdì torno a casa") e chi, un po' più sfortunato, torna alla vita da pendolare. Non c'erano proprio tuttitutti quelli che potrei quasi definire amici anziché colleghi, una era chissà dove che è ricomparsa solo ieri, ovviamente in ritardo, e l'altro stufo di seguire la lezione in piedi, è andato via prima. Potrei stare qui a parlarne, fare un'infinità di righe, ma tanto il più grande momento di gioia è stato rivedere quell'amico che, per quasi tutto il secondo semestre, a mala pena mi salutava, dopo un vucumprà che aveva pure predetto il nostro matrimonio, ed esserci rimasta male, perché passare da parlare, passare del tempo assieme ad a mala pena salutarsi era deprimente, ma invece, dopo alcuni messaggi universitari quest'estate (eccezion fatta per correggere una svista su un mio stato whatsapp), appena ci siamo visti fuori da lezione mi ha abbracciato, con me che lo abbracciavo perplessa mentre parlavo al telefono. Ed è stato subito flashback due giorni dopo averlo accanto a lezione che ascolta giocando a Dio solo sa che gioco sul telefono. Che poi rileggo 'ste righe e sembra quasi che mi piaccia, come sospettava qualcuno l'inverno scorso, ma non c'è cosa più lontana... avete presente quelle persone che vi calmano solo a vederle? Ecco, lui è questo. Se lo vedo, anche solo da lontano, mi calma, sarà che lui è sempre così calmo e pacato.
Sono andata a fare il colloquio per la radio... come si è svolto, poteva essere tranquillamente il mio peggior incubo: in gruppo davanti a tre tizie sconosciute. E' andata, però, non so come (J. dice che sono andata bene, io non so neanche cosa abbia detto per rispondere alle domande), ma è andata nel senso che sono sopravvissuta. Ora sono due giorni che cerco di non pensarci e di non illudermi, né per un posto di speaker/collaboratrice ai programmi né per blogger, se vedrò arrivare una mail bene, sennò è stato solo un tentativo, un primo passo, e non mi scoraggerò, ma lo vedrò come un punto a favore anche se andrà male, della serie "è andata male, ma ci hai provato, cosa che non avresti mai fatto, sei riuscita a non andare in panico davanti a delle sconosciute e quindi è una tua vittoria".
Niente, questo doveva essere un post a modino, ma sembra scritto da una bimba di cinque anni, ma sono stanca, magari poi lo sistemerò... forse no, rimarrà così, in memoria della mia stanchezza ma del mio stupido buon umore.
Lunedì pomeriggio è stato il giorno del rivedersi, del ritrovarsi dopo l'estate, chi tornato a Pisa a fare la vita da fuori sede (l'amica siciliana continua a sembrare più irlandese che siciliana, mi consola solo lei per il mio essere bianco neve sotto al sole), chi a quella da fuori sede in versione light (quella de "il venerdì torno a casa") e chi, un po' più sfortunato, torna alla vita da pendolare. Non c'erano proprio tuttitutti quelli che potrei quasi definire amici anziché colleghi, una era chissà dove che è ricomparsa solo ieri, ovviamente in ritardo, e l'altro stufo di seguire la lezione in piedi, è andato via prima. Potrei stare qui a parlarne, fare un'infinità di righe, ma tanto il più grande momento di gioia è stato rivedere quell'amico che, per quasi tutto il secondo semestre, a mala pena mi salutava, dopo un vucumprà che aveva pure predetto il nostro matrimonio, ed esserci rimasta male, perché passare da parlare, passare del tempo assieme ad a mala pena salutarsi era deprimente, ma invece, dopo alcuni messaggi universitari quest'estate (eccezion fatta per correggere una svista su un mio stato whatsapp), appena ci siamo visti fuori da lezione mi ha abbracciato, con me che lo abbracciavo perplessa mentre parlavo al telefono. Ed è stato subito flashback due giorni dopo averlo accanto a lezione che ascolta giocando a Dio solo sa che gioco sul telefono. Che poi rileggo 'ste righe e sembra quasi che mi piaccia, come sospettava qualcuno l'inverno scorso, ma non c'è cosa più lontana... avete presente quelle persone che vi calmano solo a vederle? Ecco, lui è questo. Se lo vedo, anche solo da lontano, mi calma, sarà che lui è sempre così calmo e pacato.
Sono andata a fare il colloquio per la radio... come si è svolto, poteva essere tranquillamente il mio peggior incubo: in gruppo davanti a tre tizie sconosciute. E' andata, però, non so come (J. dice che sono andata bene, io non so neanche cosa abbia detto per rispondere alle domande), ma è andata nel senso che sono sopravvissuta. Ora sono due giorni che cerco di non pensarci e di non illudermi, né per un posto di speaker/collaboratrice ai programmi né per blogger, se vedrò arrivare una mail bene, sennò è stato solo un tentativo, un primo passo, e non mi scoraggerò, ma lo vedrò come un punto a favore anche se andrà male, della serie "è andata male, ma ci hai provato, cosa che non avresti mai fatto, sei riuscita a non andare in panico davanti a delle sconosciute e quindi è una tua vittoria".
Niente, questo doveva essere un post a modino, ma sembra scritto da una bimba di cinque anni, ma sono stanca, magari poi lo sistemerò... forse no, rimarrà così, in memoria della mia stanchezza ma del mio stupido buon umore.
domenica 18 settembre 2016
Domani torno a fare la pendolare, in versione light perché la maggior parte delle lezioni iniziato la prossima settimana, ma domani inizia il corso di Storia e critica del cinema, poi in settimana ho Storia della radio, della tv e delle arte elettroniche e, già solo questi due corsi, mi fanno sorridere un sacco. Ripenso ad un anno fa, alla me che all'idea di andare a Pisa era spaventata e ora, invece, quasi non vedo l'ora di tornare a puntare la sveglia (quasi) tutte le mattine presto, di tornarmi a lamentare dei treni mai in orario, della stanchezza, delle occhiaie, delle persone.
Martedì ho un colloquio per il progetto della radio, alla fine una risposta è arrivata. Ho da parlare faccia a faccia con qualcuno, mi viene un po' da ridere, ma voglio fidarmi di chi crede in me (e della "parlantina alla Evans", come dice un'amica).
Martedì ho un colloquio per il progetto della radio, alla fine una risposta è arrivata. Ho da parlare faccia a faccia con qualcuno, mi viene un po' da ridere, ma voglio fidarmi di chi crede in me (e della "parlantina alla Evans", come dice un'amica).
mercoledì 14 settembre 2016
Too young to say though I swear he knew.
Quest'anno non ho preso l'agenda per mettermi a scriverti il giorno stesso, non mi sono messa ad ascoltare nessuna delle canzoni che mi ricordano te, non sto neanche iniziando questa righe come se fossero una vera e propria lettera senza un mittente, ma comunque scrivo a te come se potessi leggere, che scrivere a chi non può leggere è un po' scrivere anche a se stessi.
Non ho preso carta e penna per scriverti un'altra lettera senza destinatario, ma ti ho comunque pensato. Ti ho pensato tanto tra una pagina di un riassunto di un libro e l'appunto di un altro mentre finivo il ripasso del giorno prima dell'esame. Ti ho pensato il giorno dell'esame, quando invece che essere rimandata al giorno dopo, sono stata segnata come ultima della giornata e ho pensato "io volevo andare al cimitero a lasciare una rosa", ma invece sono rimasta bloccata a Pisa fino a quasi le sette di sera, però sul libretto universitario è stato scritto il primo inaspettato (perché io ero convinta di bocciare o prendere ventidue che è il voto che, altre volte, ha dato a chi andava male) trenta. Mi piace pensare che, se tu fossi ancora vivo, che se potessi capire ancora tutto, ti avrei chiamato e avrei urlato un po' al telefono per dirtelo, perché a novantuno anni saresti stato un po' "duro d'orecchi", ma poi avresti capito e mi avresti fatto i complimenti; ti avrei sentito fiero di me, del fatto che mi impegno ed ottengo dei risultati. Probabilmente, avrei chiuso la chiamata dicendoti che ti sarei venuta a trovare al più presto e, probabilmente, sarei venuta davvero a trovarti, magari guidando la mia macchina per quella stradina stretta con le macchine parcheggiate a lato a renderla ancora più stretta,
Sai, nonno, ho fatto un primo passo verso il buttarmi verso i miei obbiettivi, ho partecipato alla candidatura per la radio dell'università; le candidature chiudevano quattro giorni fa, non ho ancora saputo nulla, non ci spero neanche più, ma non sono demoralizzata come sarei stata un anno fa. Se fosse davvero così, che è andata male dico, era solo una possibilità, ne cercherò altre, proverò altre volte, per altre cose. Sai, sono diventata più forte, più tenace e ambiziosa, mi sarebbe piaciuto esserlo anni fa, per farti conoscere questa me, non la bambina che piangeva facilmente, l'adolescente strana, la tarda adolescente che si fermava a parlare con te che eri sempre meno te. Mi sarebbe piaciuto davvero, non per farmi volere più bene, perché me ne hai dato tanto, ma perché mi sarei sentita un po' più all'altezza delle altre persone in famiglia.
Sai, mi piacerebbe tanto che tu fossi ancora qui, perché non siamo mai stati una famiglia perfetta, tutto il contrario: siamo sempre stati una famiglia umana inclina agli errori, ma ora le cose sembrano peggiorare giorno dopo giorno. La P. oramai ha tagliato i ponti con tutti, tranne che con suo fratello, la piccola G. non la vedo dalla vigilia di Natale, papà si finge indifferente quando ne parliamo, ma è preoccupato per lo zio che, con tutta questa situazione, sta - per usare le parole di papà - "andando fuori di testa" e la zia, che è buona come il pane, è a pezzi, l'ho vista piangere per la mancanza di quella figlia che ha tirato fuori tanto astio e tanto rancore, per la mancanza di vedere crescere una nipote e un po' anche per un genero a cui ha voluto bene come un figlio e che le ha detto cose cattivissime in mezzo ad una strada di Parigi (che ironia, l'ultima volta che hanno parlato con loro è stato un gigantesco dolore nel bel mezzo della città più romantica del mondo). Io come sto? Mi divido tra la rabbia, un crescente rancore, la delusione, un po' di sofferenza ed un senso di impotenza dato dal fatto che non so cosa fare per migliorare questa situazione, dal fatto che so di non potere fare nulla. E mi manca poter vedere crescere quello scricciolo che già prima vedevo poco, mi manca poter realizzare quell'idea di confrontarmi con la P. sull'università, di chiederle come si era trovata lei ai suoi tempi, se avesse qualche consiglio, ma invece non so come stanno, se sono ripartiti, se alla G. è piaciuta la bambola-peluches a forma di Ariel, se ci gioca, come va il suo corso di ballo (perché ha quasi tre anni e, siccome "ballava" per caso con la musica, abbiamo saputo che fa un corso di ballo per bambine, zia mi ha fatto vedere una foto col tutu. Il viso perennemente serio e il tutu.), se ha qualche amichetta, come va con avere quasi tre anni e doversi confrontare con due lingue. E' la prima volta che ne scrivo, nonno, ed è la prima volta che ammetto a me stessa di starci male, perché non mi sento in dovere di starci male, ma sto capendo che parliamo di mia cugina, quella che, quando ero piccola, seguivo il sogno di essere come lei, ma invece ora non mi ci cambierei mai.
Sai nonno, avrei voluto che queste righe fossero venate meno di malinconia, ma è che più passano gli anni, più mi rendo conto di quanto la tua presenza fosse importante, di quanto tu fossi l'unica persona in famiglia con cui, anche a quindici, sedici, diciassette anni, non avessi paura ad accennare ai miei sogni, ad andare oltre le frasi di circostanza, perché tu non giudicavi, cercavi sempre di comprendere. Mi manchi, perché mi hai insegnato tanto ed io mi chiedo sempre se non avessi potuto fare di più che semplicemente venirti a trovare, rimanere a parlare con te... fino a che sono riuscita, fino a che mi hai riconosciuto, fino a che non ti sei ritrovato in una camera di ospedale.
E' sera, ho fame e sto ripensando a quella volta in cui mamma lavorava in quella fabbrica di sughi, papà si muoveva in scooter e c'era un brutto temporale, così mi hanno lasciato da voi anche per cena, io iniziavo a preoccuparmi, nonna non era tanto più calma di te e invece tu, mi tranquillizzavi. E' proprio come ho studiato, la memoria e l'oblio sono collegati e capita che vengano fuori dei ricordi che si pensavano persi.
E' solo un'altra stupida lettera senza destinatario, solo un'altra stupida lettera che non verrà mai letta.
Non ho preso carta e penna per scriverti un'altra lettera senza destinatario, ma ti ho comunque pensato. Ti ho pensato tanto tra una pagina di un riassunto di un libro e l'appunto di un altro mentre finivo il ripasso del giorno prima dell'esame. Ti ho pensato il giorno dell'esame, quando invece che essere rimandata al giorno dopo, sono stata segnata come ultima della giornata e ho pensato "io volevo andare al cimitero a lasciare una rosa", ma invece sono rimasta bloccata a Pisa fino a quasi le sette di sera, però sul libretto universitario è stato scritto il primo inaspettato (perché io ero convinta di bocciare o prendere ventidue che è il voto che, altre volte, ha dato a chi andava male) trenta. Mi piace pensare che, se tu fossi ancora vivo, che se potessi capire ancora tutto, ti avrei chiamato e avrei urlato un po' al telefono per dirtelo, perché a novantuno anni saresti stato un po' "duro d'orecchi", ma poi avresti capito e mi avresti fatto i complimenti; ti avrei sentito fiero di me, del fatto che mi impegno ed ottengo dei risultati. Probabilmente, avrei chiuso la chiamata dicendoti che ti sarei venuta a trovare al più presto e, probabilmente, sarei venuta davvero a trovarti, magari guidando la mia macchina per quella stradina stretta con le macchine parcheggiate a lato a renderla ancora più stretta,
Sai, nonno, ho fatto un primo passo verso il buttarmi verso i miei obbiettivi, ho partecipato alla candidatura per la radio dell'università; le candidature chiudevano quattro giorni fa, non ho ancora saputo nulla, non ci spero neanche più, ma non sono demoralizzata come sarei stata un anno fa. Se fosse davvero così, che è andata male dico, era solo una possibilità, ne cercherò altre, proverò altre volte, per altre cose. Sai, sono diventata più forte, più tenace e ambiziosa, mi sarebbe piaciuto esserlo anni fa, per farti conoscere questa me, non la bambina che piangeva facilmente, l'adolescente strana, la tarda adolescente che si fermava a parlare con te che eri sempre meno te. Mi sarebbe piaciuto davvero, non per farmi volere più bene, perché me ne hai dato tanto, ma perché mi sarei sentita un po' più all'altezza delle altre persone in famiglia.
Sai, mi piacerebbe tanto che tu fossi ancora qui, perché non siamo mai stati una famiglia perfetta, tutto il contrario: siamo sempre stati una famiglia umana inclina agli errori, ma ora le cose sembrano peggiorare giorno dopo giorno. La P. oramai ha tagliato i ponti con tutti, tranne che con suo fratello, la piccola G. non la vedo dalla vigilia di Natale, papà si finge indifferente quando ne parliamo, ma è preoccupato per lo zio che, con tutta questa situazione, sta - per usare le parole di papà - "andando fuori di testa" e la zia, che è buona come il pane, è a pezzi, l'ho vista piangere per la mancanza di quella figlia che ha tirato fuori tanto astio e tanto rancore, per la mancanza di vedere crescere una nipote e un po' anche per un genero a cui ha voluto bene come un figlio e che le ha detto cose cattivissime in mezzo ad una strada di Parigi (che ironia, l'ultima volta che hanno parlato con loro è stato un gigantesco dolore nel bel mezzo della città più romantica del mondo). Io come sto? Mi divido tra la rabbia, un crescente rancore, la delusione, un po' di sofferenza ed un senso di impotenza dato dal fatto che non so cosa fare per migliorare questa situazione, dal fatto che so di non potere fare nulla. E mi manca poter vedere crescere quello scricciolo che già prima vedevo poco, mi manca poter realizzare quell'idea di confrontarmi con la P. sull'università, di chiederle come si era trovata lei ai suoi tempi, se avesse qualche consiglio, ma invece non so come stanno, se sono ripartiti, se alla G. è piaciuta la bambola-peluches a forma di Ariel, se ci gioca, come va il suo corso di ballo (perché ha quasi tre anni e, siccome "ballava" per caso con la musica, abbiamo saputo che fa un corso di ballo per bambine, zia mi ha fatto vedere una foto col tutu. Il viso perennemente serio e il tutu.), se ha qualche amichetta, come va con avere quasi tre anni e doversi confrontare con due lingue. E' la prima volta che ne scrivo, nonno, ed è la prima volta che ammetto a me stessa di starci male, perché non mi sento in dovere di starci male, ma sto capendo che parliamo di mia cugina, quella che, quando ero piccola, seguivo il sogno di essere come lei, ma invece ora non mi ci cambierei mai.
Sai nonno, avrei voluto che queste righe fossero venate meno di malinconia, ma è che più passano gli anni, più mi rendo conto di quanto la tua presenza fosse importante, di quanto tu fossi l'unica persona in famiglia con cui, anche a quindici, sedici, diciassette anni, non avessi paura ad accennare ai miei sogni, ad andare oltre le frasi di circostanza, perché tu non giudicavi, cercavi sempre di comprendere. Mi manchi, perché mi hai insegnato tanto ed io mi chiedo sempre se non avessi potuto fare di più che semplicemente venirti a trovare, rimanere a parlare con te... fino a che sono riuscita, fino a che mi hai riconosciuto, fino a che non ti sei ritrovato in una camera di ospedale.
E' sera, ho fame e sto ripensando a quella volta in cui mamma lavorava in quella fabbrica di sughi, papà si muoveva in scooter e c'era un brutto temporale, così mi hanno lasciato da voi anche per cena, io iniziavo a preoccuparmi, nonna non era tanto più calma di te e invece tu, mi tranquillizzavi. E' proprio come ho studiato, la memoria e l'oblio sono collegati e capita che vengano fuori dei ricordi che si pensavano persi.
E' solo un'altra stupida lettera senza destinatario, solo un'altra stupida lettera che non verrà mai letta.
giovedì 1 settembre 2016
Now it all seems so clear, there's nothing left to fear, so we made our way by finding what was real.
Ciao Settembre,
è passato un anno ed io mi ritrovo di nuovo a scriverti. Ho paura di te, visto cos'è successo un anno fa. Ho paura, ma non mi arrendo.
Sono a casa, l'ultima puntata della terza stagione di Agents of SHIELD è a caricare ed io posso mettermi a scrivere con carta e penna, come non facevo da un po'.
Ogni anno siamo alle solite, io scrivo a te, che sei solo un mese, come se tu potessi leggere, ma sono arrivata alla conclusione che scrivo a te per parlare a me, ma non a quella che sono ora mentre scrivo, ma a quella che sarò quando rileggerò queste parole. Sei un modo per fare il punto della situazione, per ricordarmi chi sono in questo istante, chi voglio essere "domani"; sei un modo per ricordarmi a quali sogni (anche se alla mia età farei più bella figura a parlare di progetti, ma a me non piace crescere del tutto, quindi continuo a parlare di sogni) sto lavorando.
Sai, so di essere cambiata tanto dallo scorso settembre, so che con nonna il peggio è oramai passato, convivo con la paura, ma ho comunque imparato a non farmi schiacciare, Ecco, voglio partire da qua: dal fatto che non mi faccio più schiacciare dalla paura. Nell'ultimo anno ho imparato a non avere più il timore, quello paralizzante, di essere me stessa, di farmi vedere per quella che sono e poco importa se per farlo, per stare bene, ho dovuto chiudere molte porte, lasciare indietro qualche persona, perché quello che conta è che ora sto meglio. No, non bene, ma meglio, perché ho ancora tante insicurezze su cui lavorare, anche se molte ora riesco a tenerle a bada, e speso la mia ansia mi batte, mettendomi ko, ma comunque va molto meglio di prima, non è poi così buia come sembra da queste ultime righe. Ho imparato ad essere sicura, perché quale motivi ho per non esserlo? Cos'ho in meno di altri? E perché, soprattutto, dovrei sentirmi inferiore a qualcuno o, peggio, inadatta a causa di altre persone? Io sono io, con il mio carattere contraddittorio, le mie stranezze, il mio brontolare e polemizzare su tutto, le mie passioni, il mio caratteraccio, i miei sogni forse troppo grandi. Chi mi vuole nella sua vita, mi deve accettare così, perché al mio fianco voglio solo persone che mi facciano stare bene, che mi facciano sentire libera di essere me stessa.
Forse, la conquista più grande dell'ultimo anno, più di essere riuscita a dimostrare a me stessa che posso affrontare l'università, più di aver preso la patente, più di aver fatto nuove amicizie, più di un nuovo tatuaggio che ogni giorno mi ricorda che posso farcela, più di sapere chi sono le persone su cui posso davvero contare è che sono riuscita ad accettarmi per quello che sono, debolezze comprese. E questa conquista non può togliermela nessuno.
Ho imparato ad affrontare le cose, senza scappare. Ho imparato che a volte mettere un punto fermo è meglio che lasciare tutto in sospeso a galleggiare sui rancori, a volte per mettere un punto bisogna parlare, altre volte bisogna solo decidersi a fare le valigie ed andare altrove, anche solo metaforicamente. Ora non scappo più, sto imparando che la fuga non è mai la risposta giusta; sto imparando che rischiare è meglio dei se ("Amy nella vita o ti butti o resti nel dubbio", mi disse qualcuno).
Sai Settembre, ti temo ancora come quando alle superiori avevo gli esami di recupero, come quando dovevo andare in una scuola in cui non conoscevo nessuno, come quando mi hai dato piccole delusioni che mi hanno segnata, come quando mi hai tolto qualcosa o mi hai dato sfide più grandi di me, ma allo stesso tempo ti aspetto sempre, perché sei sempre il mio capodanno personale, sei la mia grande sfida, quella che mi mette sempre davanti a qualcosa di nuovo che non so mai prima cos'è e come affrontarlo.
Come ogni anno, Settembre, ho le mie speranze, ho qualcosa che aspetto - di passare un esame che mi fa schifo studiare, un progetto in cui ho riposto tante speranze, orari decenti in facoltà - e mi piacerebbe davvero che, almeno quest'anno, non giocassi malamente le tua carte mettendomi alla prova. Non togliermi troppo per mettermi alla prova, almeno quest'anno.
Benvenuto settembre, già che sei arrivato porta un po' di pioggia e di fresco. Mi piacerebbe tanto sentire l'odore di pioggia, stanotte.
è passato un anno ed io mi ritrovo di nuovo a scriverti. Ho paura di te, visto cos'è successo un anno fa. Ho paura, ma non mi arrendo.
Sono a casa, l'ultima puntata della terza stagione di Agents of SHIELD è a caricare ed io posso mettermi a scrivere con carta e penna, come non facevo da un po'.
Ogni anno siamo alle solite, io scrivo a te, che sei solo un mese, come se tu potessi leggere, ma sono arrivata alla conclusione che scrivo a te per parlare a me, ma non a quella che sono ora mentre scrivo, ma a quella che sarò quando rileggerò queste parole. Sei un modo per fare il punto della situazione, per ricordarmi chi sono in questo istante, chi voglio essere "domani"; sei un modo per ricordarmi a quali sogni (anche se alla mia età farei più bella figura a parlare di progetti, ma a me non piace crescere del tutto, quindi continuo a parlare di sogni) sto lavorando.
Sai, so di essere cambiata tanto dallo scorso settembre, so che con nonna il peggio è oramai passato, convivo con la paura, ma ho comunque imparato a non farmi schiacciare, Ecco, voglio partire da qua: dal fatto che non mi faccio più schiacciare dalla paura. Nell'ultimo anno ho imparato a non avere più il timore, quello paralizzante, di essere me stessa, di farmi vedere per quella che sono e poco importa se per farlo, per stare bene, ho dovuto chiudere molte porte, lasciare indietro qualche persona, perché quello che conta è che ora sto meglio. No, non bene, ma meglio, perché ho ancora tante insicurezze su cui lavorare, anche se molte ora riesco a tenerle a bada, e speso la mia ansia mi batte, mettendomi ko, ma comunque va molto meglio di prima, non è poi così buia come sembra da queste ultime righe. Ho imparato ad essere sicura, perché quale motivi ho per non esserlo? Cos'ho in meno di altri? E perché, soprattutto, dovrei sentirmi inferiore a qualcuno o, peggio, inadatta a causa di altre persone? Io sono io, con il mio carattere contraddittorio, le mie stranezze, il mio brontolare e polemizzare su tutto, le mie passioni, il mio caratteraccio, i miei sogni forse troppo grandi. Chi mi vuole nella sua vita, mi deve accettare così, perché al mio fianco voglio solo persone che mi facciano stare bene, che mi facciano sentire libera di essere me stessa.
Forse, la conquista più grande dell'ultimo anno, più di essere riuscita a dimostrare a me stessa che posso affrontare l'università, più di aver preso la patente, più di aver fatto nuove amicizie, più di un nuovo tatuaggio che ogni giorno mi ricorda che posso farcela, più di sapere chi sono le persone su cui posso davvero contare è che sono riuscita ad accettarmi per quello che sono, debolezze comprese. E questa conquista non può togliermela nessuno.
Ho imparato ad affrontare le cose, senza scappare. Ho imparato che a volte mettere un punto fermo è meglio che lasciare tutto in sospeso a galleggiare sui rancori, a volte per mettere un punto bisogna parlare, altre volte bisogna solo decidersi a fare le valigie ed andare altrove, anche solo metaforicamente. Ora non scappo più, sto imparando che la fuga non è mai la risposta giusta; sto imparando che rischiare è meglio dei se ("Amy nella vita o ti butti o resti nel dubbio", mi disse qualcuno).
Sai Settembre, ti temo ancora come quando alle superiori avevo gli esami di recupero, come quando dovevo andare in una scuola in cui non conoscevo nessuno, come quando mi hai dato piccole delusioni che mi hanno segnata, come quando mi hai tolto qualcosa o mi hai dato sfide più grandi di me, ma allo stesso tempo ti aspetto sempre, perché sei sempre il mio capodanno personale, sei la mia grande sfida, quella che mi mette sempre davanti a qualcosa di nuovo che non so mai prima cos'è e come affrontarlo.
Come ogni anno, Settembre, ho le mie speranze, ho qualcosa che aspetto - di passare un esame che mi fa schifo studiare, un progetto in cui ho riposto tante speranze, orari decenti in facoltà - e mi piacerebbe davvero che, almeno quest'anno, non giocassi malamente le tua carte mettendomi alla prova. Non togliermi troppo per mettermi alla prova, almeno quest'anno.
Benvenuto settembre, già che sei arrivato porta un po' di pioggia e di fresco. Mi piacerebbe tanto sentire l'odore di pioggia, stanotte.
mercoledì 24 agosto 2016
Riassunto veloce (per non dimenticare).
ho visto Suicide Squad (bel film, mi è piaciuto molto, anche se hanno snaturato un po' troppo il rapporto Harley - Joker, ma nel complesso un bel film. Colonna sonora favolosa!);
Bonnie, la macchina, è dal meccanico ed è tutto il giorno che parlo di lei dicendo che è "ricoverata" e che si sentirà sola, là senza nessuno;
in giro ad un evento ho incontrato il tiziouomo dell'anno scorso: lui melifluo come al solito, io mal cagato di striscio grazie al fatto che ero a parlare con un amico (a cui volevo offrire da bere, visto che mi ha salvato dal tizio, ma non ha voluto. Meglio per le mie tasche);
ho comprato una felpa azzurrissima ad un evento annuale che amo, è tipo il capo più colorato del mio intero armadio e non vedo l'ora di metterlo, quindi inverno muoviti ad arrivare;
lo studio va a rilento;
mangio troppi dolci, soprattutto secondo un'amica;
domani devo accompagnare un'amica a tatuarsi, soffrendo tantissimo a non farmi qualcosa anch'io;
ho mandato la candidatura per una cosa per cui spero moltissimo, ma di cui non scriverò nulla (non ora, per scaramanzia, prima o poi, che vada bene o che vada male, ne scriverò, anche solo per ricordarmi di averci provato);
ho riletto tutti i post dell'anno scorso, mi sento tanto diversa da chi ero un anno fa.
Bonnie, la macchina, è dal meccanico ed è tutto il giorno che parlo di lei dicendo che è "ricoverata" e che si sentirà sola, là senza nessuno;
in giro ad un evento ho incontrato il tiziouomo dell'anno scorso: lui melifluo come al solito, io mal cagato di striscio grazie al fatto che ero a parlare con un amico (a cui volevo offrire da bere, visto che mi ha salvato dal tizio, ma non ha voluto. Meglio per le mie tasche);
ho comprato una felpa azzurrissima ad un evento annuale che amo, è tipo il capo più colorato del mio intero armadio e non vedo l'ora di metterlo, quindi inverno muoviti ad arrivare;
lo studio va a rilento;
mangio troppi dolci, soprattutto secondo un'amica;
domani devo accompagnare un'amica a tatuarsi, soffrendo tantissimo a non farmi qualcosa anch'io;
ho mandato la candidatura per una cosa per cui spero moltissimo, ma di cui non scriverò nulla (non ora, per scaramanzia, prima o poi, che vada bene o che vada male, ne scriverò, anche solo per ricordarmi di averci provato);
ho riletto tutti i post dell'anno scorso, mi sento tanto diversa da chi ero un anno fa.
mercoledì 10 agosto 2016
La vicina di casa, una signora piuttosto anziana più vicina ai novanta che agli ottanta, mi ha regalato un santino da tenere in macchina.
Un'amica mi ha scritto per decidere chi guida e io da persona felice e spensierata che pregustava già almeno uno shottino di vodka alla mente sono passata a sudare freddo. Odio guidare, odio avere dei passeggeri, odio un semaforo che c'è da fare (mi ci sono bloccata l'altra settimana, ancora ho gli incubi, stasera ci sarà pure pieno!) e ora inizio a pregare che non debba prenderla io, che amico decida di prenderla lui la macchina, così, perché sa che sono una pippa a guidare, sulla fiducia.
Un'amica mi ha scritto per decidere chi guida e io da persona felice e spensierata che pregustava già almeno uno shottino di vodka alla mente sono passata a sudare freddo. Odio guidare, odio avere dei passeggeri, odio un semaforo che c'è da fare (mi ci sono bloccata l'altra settimana, ancora ho gli incubi, stasera ci sarà pure pieno!) e ora inizio a pregare che non debba prenderla io, che amico decida di prenderla lui la macchina, così, perché sa che sono una pippa a guidare, sulla fiducia.
domenica 7 agosto 2016
Giovedì sono andata a vedere Gemitaiz, non proprio il genere di concerto a cui vado di solito (io sono abituata a vedere gente pogare e, non avendo visto né essendomici ritrovata, un po' mi è mancato), però è stato bello. E' valso decisamente il biglietto.
Venerdì ci sono stati i Tre Allegri Ragazzi Morti e beh... se tre anni fa è stato bello, l'altro giorno è stato indescrivibile. Loro sul palco sono davvero dei professionisti, sia per come suonano sia per i musicisti che portano in tour con loro sia per lo spettacolo che mettono su. La prima fila con la maschera addosso un'Amica con la maiuscola accanto e loro sul palco è una di quelle serate che ti riempie così tanto il cuore che credi davvero che, per parafrasare i TARM, è stata inventata la musica perché la vita fa schifo.
Ieri mi ha chiamato un amico (avrei potuto non leggere il nome prima di rispondere un amico, perché al urlo "mario" al telefono avrei comunque identificato chi fosse) per chiedermi se uscivo... è finita che siamo andati a qualche chilometro da qua a cercare i Pokémon e tra una scorta di Magikarp, Psyduck, qualche altro Pokémon siamo riusciti a trovare Dratini. Ora, né lui né voi che leggete questo sapete due cose: uno, sono un'amante dei Pokémon d'acqua; io non so chi di voi guardava il cartone, ma c'era Misty che praticamente allenava quasi esclusivamente quelli di tipo acquatico ed io adoravo Misty, da grande volevo essere come lei. Secondo, io sulla parete alle spalle del monitor ho un disegno di Dratini che ho comprato ad una Comic qua vicino. Immaginate la mia gioia di veder apparire un Dratini sul mio schermo.
Va bene. Negli ultimi giorni va bene.
Venerdì ci sono stati i Tre Allegri Ragazzi Morti e beh... se tre anni fa è stato bello, l'altro giorno è stato indescrivibile. Loro sul palco sono davvero dei professionisti, sia per come suonano sia per i musicisti che portano in tour con loro sia per lo spettacolo che mettono su. La prima fila con la maschera addosso un'Amica con la maiuscola accanto e loro sul palco è una di quelle serate che ti riempie così tanto il cuore che credi davvero che, per parafrasare i TARM, è stata inventata la musica perché la vita fa schifo.
Ieri mi ha chiamato un amico (avrei potuto non leggere il nome prima di rispondere un amico, perché al urlo "mario" al telefono avrei comunque identificato chi fosse) per chiedermi se uscivo... è finita che siamo andati a qualche chilometro da qua a cercare i Pokémon e tra una scorta di Magikarp, Psyduck, qualche altro Pokémon siamo riusciti a trovare Dratini. Ora, né lui né voi che leggete questo sapete due cose: uno, sono un'amante dei Pokémon d'acqua; io non so chi di voi guardava il cartone, ma c'era Misty che praticamente allenava quasi esclusivamente quelli di tipo acquatico ed io adoravo Misty, da grande volevo essere come lei. Secondo, io sulla parete alle spalle del monitor ho un disegno di Dratini che ho comprato ad una Comic qua vicino. Immaginate la mia gioia di veder apparire un Dratini sul mio schermo.
Va bene. Negli ultimi giorni va bene.
mercoledì 3 agosto 2016
Sono solo una ragazza logorroica incline alla polemica.
Parto questo post premettendo alcune cose fondamentali.
Ecco. Questo discorso sulle parolacce vuole arrivare ad un punto preciso: la diversità che c’è ancora tra uomo e donna. Ora, ho parlato delle parolacce solo perché sono una persona scurrile, a volte troppo, e che certe parole in bocca ad una ragazza non stanno bene me lo sarò sentito non so più quante volte, l’ultima volta solo un paio di giorni fa, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è un’altra. Ora, io non ho problemi a dire che ho Snapchat e che su questo social seguo Fedez... e lo so che tu che leggi starai pensando “quindi?”, quindi niente, ieri mi è capitato un suo minivideo in cui parlava di una certa Greta Menchi e delle critiche che le sono arrivate per essere entrare in Utopia (tra l’altro, avrei anche da polemizzare su come hanno tutti deciso di pronunciare il nome “Utopia”, ma facciamo finta di nulla) al che ho ripensato ai diversi post che ho visto in giro per il web e, soprattutto, i commenti che ho letto su vari social riferiti a suddetta ragazza, ma ho cercato di far finta di nulla, ma stasera mi è capitato l’ennesimo post e ho sentito il sangue ribollire. Ora, io non so chi sia questa Greta Menchi, non so cosa faccia nella vita, quanti anni abbia, da dove sia uscita e altro, so solo che faccia ha e che ha un favoloso colore rosa di capelli, quindi per me la polemica che sto per tirare su è più oggettiva che soggettiva, visto che a lei non mi lega niente, neanche una simpatia artistica visto che, ripeto, non cosa faccia.
Entra in Utopia, il web si scatena con commenti bellissimi di alto livello culturale come “deve proprio sapere fare bene i bocchini”, “a quanti l’ha data?”, “eh, chissà cosa li ha dato per farsi fare un contratto” e altri commenti di simile contenuto che né mi sforzo neanche di ricordare né di riportare in un italiano migliore. Bene. Siamo alle solite, una di dubbio talento viene messa sotto contratto e diventa ‘na zoccola. Peccato che da mesi nelle radio gira quel terribile pezzo che ogni volta che lo trovo in radio cambio stazione di Andiamo A Comandare di Rovazzi (che, anche qui, da dove cazzo è uscito questo!?), anche lui, da quello che ho capito, è in Utopia come la suddetta ragazza e, soprattutto a parere personale, scarseggia in quanto a talento, ma a parte i soliti commenti del tipo “ma dove vai?”, “dovresti zappare la terra, non cantare” e cose così, non ho letto commenti di profonda levatura intellettuale, ma solo critiche male espresse. Dov’è per lui l’allusione a come fa un pompino? E quella di essersi scopato qualcuno? E quella di aver dato via il culo?
Loro sono solo la punta dell’icerberg, l’esempio. La vita è piena di esempi simili dove una donna, meritevole o meno, quando arriva ad ottenere un successo si qualsiasi tipo non è mai perché se lo è meritato, raramente è perché è la nipote del cugino del prozio dell’amico del datore di lavoro, ma più spesso ha fatto qualche favore sessuale a qualcuno, ma mai che un uomo sia raccomandato perché si sia prestato a fare sesso con il datore di lavoro o anche solo che ci abbia provato. No, l’uomo generale o se l’è meritato o viene considerato lì perché nipote del cugino del prozio dell’amico del datore di lavoro.
Ora, sarà che io sono pure femminista, perché vorrei l’uguaglianza tra uomo e donna, sarà che sono idealista, polemica, pure un po’ cagacazzi, ma nonostante so quanto sia radicata la doppia morale che divide uomo e donna in tutto, tant’è che io se dico di essere ambiziosa e che in futuro vorrei avere un posto di lavoro in cui conto e che da cui a dieci anni non mi vedo né sposata né in procinto di essere madre la gente mi guarda come se avessi detto di essere nata con due teste, però a me questo discorso mi rompe i coglioni.
Cristo santo, vedo gente della mia età che ancora manda avanti questi cazzo di discorsi di merda sul fatto che se una ottiene qualcosa è perché è zoccola, se una poco carina riesce a mettersi con un ragazzo carino deve per forza essere brava a letto, se una è intelligente è per forza ‘na cessa zitella, che se è bella deve essere per forza scema, quindi se otterrà anche solo mezzo successo sarà o perché l’ha data o perché è raccomandata. Dio santo, vi faccio presente che è pieno di raccomandati uomini e che, ne sono convinta, qualcuno si venderebbe pure sessualmente se in cambio ottenesse un ottimo lavoro con un ottimo stipendio; che se un uomo cesso sta con una donna figa non è per forza perché c’ha i soldi o perché è simpatico, magari pure lui scopa bene e la strafiga ci sta perché è bravo a letto, giusto perché siamo nel XXI secolo e oramai è stato chiaramente sdoganato il fatto che il sesso per le donne è solo un’attività riproduttiva e che lo fanno per puro piacere (sempre sia lodata la rivoluzione sessuale) che poi su questo vorrei dilungarmi anche, ma non ho voglia di mettermi a fare un’altra polemica dentro una polemica.
Ora, tutto questo lo potevo riassumere con le seguenti righe: se dovete criticare una ragazza/una donna perché per voi ha ottenuto qualcosa che non si meritava, potete allargare le vostre vedute anziché limitarle a “sa fare bene i bocchini”? Così, giusto perché se argomentate le cose invece che aggrapparvi a presunti favori sessuali anziché sembrare degli invidiosi senza cervello con vedute che neanche mio nonno che ad oggi avrebbe novantuno anni, potreste sembrare vagamente intelligenti. Vagamente perché tanto poi se uno instaura una discussione viene fuori che siete ristretti di mentalità, ma almeno ad un primo momento l’avete nascosto bene.
(E sapete che c’è, non rileggo tutto questo pippone che poi lo so che mi dico da sola che sono la solita polemica del cazzo e mi tengo tutto dentro, ma per una volta lo voglio lasciare. Se c’è qualche errore, perdonatelo, sapete a battere veloce con il nervoso che fa tremare le mani non si riesce sempre a fare tutto giusto.)
- sono una persona polemica, so che potrei stare zitta e far finta di nulla, ma non ce la faccio, soprattutto quando si tratta di disuguaglianza tra i commenti sul successo di donne/uomini;
- ho studiato in più occasione il concetto di “doppia morale” e so quanto sia ancora radicato nella società;
- quello di cui parlerò sarà solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, un esempio.
Ecco. Questo discorso sulle parolacce vuole arrivare ad un punto preciso: la diversità che c’è ancora tra uomo e donna. Ora, ho parlato delle parolacce solo perché sono una persona scurrile, a volte troppo, e che certe parole in bocca ad una ragazza non stanno bene me lo sarò sentito non so più quante volte, l’ultima volta solo un paio di giorni fa, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è un’altra. Ora, io non ho problemi a dire che ho Snapchat e che su questo social seguo Fedez... e lo so che tu che leggi starai pensando “quindi?”, quindi niente, ieri mi è capitato un suo minivideo in cui parlava di una certa Greta Menchi e delle critiche che le sono arrivate per essere entrare in Utopia (tra l’altro, avrei anche da polemizzare su come hanno tutti deciso di pronunciare il nome “Utopia”, ma facciamo finta di nulla) al che ho ripensato ai diversi post che ho visto in giro per il web e, soprattutto, i commenti che ho letto su vari social riferiti a suddetta ragazza, ma ho cercato di far finta di nulla, ma stasera mi è capitato l’ennesimo post e ho sentito il sangue ribollire. Ora, io non so chi sia questa Greta Menchi, non so cosa faccia nella vita, quanti anni abbia, da dove sia uscita e altro, so solo che faccia ha e che ha un favoloso colore rosa di capelli, quindi per me la polemica che sto per tirare su è più oggettiva che soggettiva, visto che a lei non mi lega niente, neanche una simpatia artistica visto che, ripeto, non cosa faccia.
Entra in Utopia, il web si scatena con commenti bellissimi di alto livello culturale come “deve proprio sapere fare bene i bocchini”, “a quanti l’ha data?”, “eh, chissà cosa li ha dato per farsi fare un contratto” e altri commenti di simile contenuto che né mi sforzo neanche di ricordare né di riportare in un italiano migliore. Bene. Siamo alle solite, una di dubbio talento viene messa sotto contratto e diventa ‘na zoccola. Peccato che da mesi nelle radio gira quel terribile pezzo che ogni volta che lo trovo in radio cambio stazione di Andiamo A Comandare di Rovazzi (che, anche qui, da dove cazzo è uscito questo!?), anche lui, da quello che ho capito, è in Utopia come la suddetta ragazza e, soprattutto a parere personale, scarseggia in quanto a talento, ma a parte i soliti commenti del tipo “ma dove vai?”, “dovresti zappare la terra, non cantare” e cose così, non ho letto commenti di profonda levatura intellettuale, ma solo critiche male espresse. Dov’è per lui l’allusione a come fa un pompino? E quella di essersi scopato qualcuno? E quella di aver dato via il culo?
Loro sono solo la punta dell’icerberg, l’esempio. La vita è piena di esempi simili dove una donna, meritevole o meno, quando arriva ad ottenere un successo si qualsiasi tipo non è mai perché se lo è meritato, raramente è perché è la nipote del cugino del prozio dell’amico del datore di lavoro, ma più spesso ha fatto qualche favore sessuale a qualcuno, ma mai che un uomo sia raccomandato perché si sia prestato a fare sesso con il datore di lavoro o anche solo che ci abbia provato. No, l’uomo generale o se l’è meritato o viene considerato lì perché nipote del cugino del prozio dell’amico del datore di lavoro.
Ora, sarà che io sono pure femminista, perché vorrei l’uguaglianza tra uomo e donna, sarà che sono idealista, polemica, pure un po’ cagacazzi, ma nonostante so quanto sia radicata la doppia morale che divide uomo e donna in tutto, tant’è che io se dico di essere ambiziosa e che in futuro vorrei avere un posto di lavoro in cui conto e che da cui a dieci anni non mi vedo né sposata né in procinto di essere madre la gente mi guarda come se avessi detto di essere nata con due teste, però a me questo discorso mi rompe i coglioni.
Cristo santo, vedo gente della mia età che ancora manda avanti questi cazzo di discorsi di merda sul fatto che se una ottiene qualcosa è perché è zoccola, se una poco carina riesce a mettersi con un ragazzo carino deve per forza essere brava a letto, se una è intelligente è per forza ‘na cessa zitella, che se è bella deve essere per forza scema, quindi se otterrà anche solo mezzo successo sarà o perché l’ha data o perché è raccomandata. Dio santo, vi faccio presente che è pieno di raccomandati uomini e che, ne sono convinta, qualcuno si venderebbe pure sessualmente se in cambio ottenesse un ottimo lavoro con un ottimo stipendio; che se un uomo cesso sta con una donna figa non è per forza perché c’ha i soldi o perché è simpatico, magari pure lui scopa bene e la strafiga ci sta perché è bravo a letto, giusto perché siamo nel XXI secolo e oramai è stato chiaramente sdoganato il fatto che il sesso per le donne è solo un’attività riproduttiva e che lo fanno per puro piacere (sempre sia lodata la rivoluzione sessuale) che poi su questo vorrei dilungarmi anche, ma non ho voglia di mettermi a fare un’altra polemica dentro una polemica.
Ora, tutto questo lo potevo riassumere con le seguenti righe: se dovete criticare una ragazza/una donna perché per voi ha ottenuto qualcosa che non si meritava, potete allargare le vostre vedute anziché limitarle a “sa fare bene i bocchini”? Così, giusto perché se argomentate le cose invece che aggrapparvi a presunti favori sessuali anziché sembrare degli invidiosi senza cervello con vedute che neanche mio nonno che ad oggi avrebbe novantuno anni, potreste sembrare vagamente intelligenti. Vagamente perché tanto poi se uno instaura una discussione viene fuori che siete ristretti di mentalità, ma almeno ad un primo momento l’avete nascosto bene.
(E sapete che c’è, non rileggo tutto questo pippone che poi lo so che mi dico da sola che sono la solita polemica del cazzo e mi tengo tutto dentro, ma per una volta lo voglio lasciare. Se c’è qualche errore, perdonatelo, sapete a battere veloce con il nervoso che fa tremare le mani non si riesce sempre a fare tutto giusto.)
domenica 24 luglio 2016
Riassunto delle ultime due settimane.
E' un po' che non scrivo, non solo qua, ma anche per e a me stessa. E' uno di quei periodi in cui non mi va di starmi vicini e allora non scrivo, perché scrivere è un modo di parlare con me stessa, per capire cos'ho per la testa.
Ho cercato di preparare due esami, ma tra caldo ed ansia, ne sono riuscita a preparare (e dare passandolo) solo uno. L'altro l'ho rimandato, mi pesa parecchio, tutti dicono che va bene, che non è un problema, che lo ridarò, di non preoccuparmi, questo lo dicono anche i miei genitori, io invece metto un sorriso in faccia, dico che non mi pesa e invece mi pesa parecchio. Potevo farcela, ma ero indietro, il caldo mi impediva di studiare per bene, l'ansia era troppa e anche la paura di fare fiasco ad entrambi non scherzava, solo che io sono una perfezionista, un'ambiziosa, come si può pensare che non mi pesi?
Ho silenziosamente chiuso due amicizie, semplicemente non riuscivo a fidarmi, non riuscivo a convivere con il senso di inadeguatezza che avevo tornando a casa, con il fatto che mi sembrava sempre di dover scegliere tra essere quella che può essere accettata ed essere totalmente me. Così, mi sono chiusa in casa a studiare, ha portato due buoni risultati, ottimi anzi, e non mi sono più fatta né vedere né sentire e diciamocelo, prima che solo io passi per quella stronza, loro hanno fatto lo stesso o meglio, una ha fatto lo stesso, l'altra faceva l'interessata davanti agli altri chiedendo dove fossi, come mai non mi si vedesse in giro, ma mai che l'avesse detto direttamente a me, mai un "oh, ho saputo della macchina, caffè?". Alla fine mi sento meno stronza: io ho agito secondo quello che era giusto, nessuno sembra esserci rimasto male (anche se so che il giorno che ci rincontreremo in giro io passerò per la stronza che sparisce, loro saranno le vittime come sempre, quando di azioni per portarmi ad una decisione ne hanno fatte tante). Non è così male come sembra, davvero, certo se ripenso ad un anno fa o anche solo a sei mesi fa, esco molto molto molto meno, ma non mi pesa come cosa, perché quando esco sto bene. Mi sento libera di essere me e va benissimo, sto benissimo.
Tra le cose belle è che la me di quattordici, quindici e anche sedici anni si è tolta un sassolino dalla scarpa incontrando il cantante di una band che andava anni e anni fa (e siccome era ad un instore con degli artisti seguiti da ragazzine che ora hanno l'età che io avevo quando seguivo lui tempo fa, mi sono sentita vecchia! ndA) e non solo sentendolo cantare, facendogli firmare l'ultimo disco, facendoci delle foto, ma finendo ad incontrarlo in giro per il centro commerciale da solo e ritrovarmici a parlare insieme ad un'amica di musica, di com'era più facile farsi conoscere anni fa, di TRL, MySpace, di sogni, di vecchi concerti, patente, problemi con la frizione, di altre band e la me di quattordici, quindici e sedici anni gongola ancora come un'adolescente felice. Ho anche visto i Subsonica a pochi passi da casa e sono una di quelle band che vanno viste almeno una volta nella vita e, nonostante una carriera lunga vent'anni, nonostante il successo, la fama e tutto il resto, quando gli ho avuti faccia a faccia, quando ci ho parlato, sono persone umili. Fantastici sopra e sotto al palco! E ho altri due concerti in programma (uno rap, il mio primo concerto rap! E l'altro mi riporterà da una band che amo con un'Amica con la maiuscola) e sono felice, tanto.
Ho rivisto le amiche che non vedevo da un po', mi hanno ricordato quanto sia facile sorridere, quanto sia bello farlo e con la macchia inizia ad andare meglio, mi si spegne ancora, ho sempre la tachicardia, ma inizia ad andare meglio.
E ho scritto tanto per riassumere a me stessa come stanno le cose, per non dimenticarmi che io ci sono, anche se fingo di no.
Ho cercato di preparare due esami, ma tra caldo ed ansia, ne sono riuscita a preparare (e dare passandolo) solo uno. L'altro l'ho rimandato, mi pesa parecchio, tutti dicono che va bene, che non è un problema, che lo ridarò, di non preoccuparmi, questo lo dicono anche i miei genitori, io invece metto un sorriso in faccia, dico che non mi pesa e invece mi pesa parecchio. Potevo farcela, ma ero indietro, il caldo mi impediva di studiare per bene, l'ansia era troppa e anche la paura di fare fiasco ad entrambi non scherzava, solo che io sono una perfezionista, un'ambiziosa, come si può pensare che non mi pesi?
Ho silenziosamente chiuso due amicizie, semplicemente non riuscivo a fidarmi, non riuscivo a convivere con il senso di inadeguatezza che avevo tornando a casa, con il fatto che mi sembrava sempre di dover scegliere tra essere quella che può essere accettata ed essere totalmente me. Così, mi sono chiusa in casa a studiare, ha portato due buoni risultati, ottimi anzi, e non mi sono più fatta né vedere né sentire e diciamocelo, prima che solo io passi per quella stronza, loro hanno fatto lo stesso o meglio, una ha fatto lo stesso, l'altra faceva l'interessata davanti agli altri chiedendo dove fossi, come mai non mi si vedesse in giro, ma mai che l'avesse detto direttamente a me, mai un "oh, ho saputo della macchina, caffè?". Alla fine mi sento meno stronza: io ho agito secondo quello che era giusto, nessuno sembra esserci rimasto male (anche se so che il giorno che ci rincontreremo in giro io passerò per la stronza che sparisce, loro saranno le vittime come sempre, quando di azioni per portarmi ad una decisione ne hanno fatte tante). Non è così male come sembra, davvero, certo se ripenso ad un anno fa o anche solo a sei mesi fa, esco molto molto molto meno, ma non mi pesa come cosa, perché quando esco sto bene. Mi sento libera di essere me e va benissimo, sto benissimo.
Tra le cose belle è che la me di quattordici, quindici e anche sedici anni si è tolta un sassolino dalla scarpa incontrando il cantante di una band che andava anni e anni fa (e siccome era ad un instore con degli artisti seguiti da ragazzine che ora hanno l'età che io avevo quando seguivo lui tempo fa, mi sono sentita vecchia! ndA) e non solo sentendolo cantare, facendogli firmare l'ultimo disco, facendoci delle foto, ma finendo ad incontrarlo in giro per il centro commerciale da solo e ritrovarmici a parlare insieme ad un'amica di musica, di com'era più facile farsi conoscere anni fa, di TRL, MySpace, di sogni, di vecchi concerti, patente, problemi con la frizione, di altre band e la me di quattordici, quindici e sedici anni gongola ancora come un'adolescente felice. Ho anche visto i Subsonica a pochi passi da casa e sono una di quelle band che vanno viste almeno una volta nella vita e, nonostante una carriera lunga vent'anni, nonostante il successo, la fama e tutto il resto, quando gli ho avuti faccia a faccia, quando ci ho parlato, sono persone umili. Fantastici sopra e sotto al palco! E ho altri due concerti in programma (uno rap, il mio primo concerto rap! E l'altro mi riporterà da una band che amo con un'Amica con la maiuscola) e sono felice, tanto.
Ho rivisto le amiche che non vedevo da un po', mi hanno ricordato quanto sia facile sorridere, quanto sia bello farlo e con la macchia inizia ad andare meglio, mi si spegne ancora, ho sempre la tachicardia, ma inizia ad andare meglio.
E ho scritto tanto per riassumere a me stessa come stanno le cose, per non dimenticarmi che io ci sono, anche se fingo di no.
sabato 9 luglio 2016
"Hai messo la prima!"
Stamani è arrivata la chiamata, quella che non aspettavo poi così tanto, quella in cui mio padre mi informava che, insieme a mio zio, mi avrebbe portato la macchina e le chiavi. Niente più scuse per non guidare. La patente c'è, la macchina pure... no, fermi tutti: manca la pratica. E' da quando ho preso la patente che non guido, ho provato domenica con mio padre, ma è stato un disastro e sono scesa lasciando a lui il ruolo di guidatore.
Mi lascia le chiavi. Torno a studiare (l'ansia. Potrei fare mille battute su me che studio l'ansia, ma questa è un'altra storia), mamma torna da lavoro e decide che è il caso di andare a guidare. Ah. Se lo dici tu.
Guida lei: prima tappa benzinaio e Odino santifichi le pompe di benzina con il servizio, ché io la benzina da sola non avrei saputo farla. Seconda tappa: il parcheggio dove tutti vanno a fare pratica.
Bene. Io e Bonnie (per ora la macchina si chiama Bonnie - come Bonnie e Clyde - ma il nome è in rivalità con Bunny, la protagonista di Sailor Moon) abbiamo un problema semplice, cioè non ho confidenza con la sua frizione e il suo cambio. Faccio qualche giro, miglioro il rapporto, sembra non spegnersi più e lì arriva la frase più brutta che abbia sentito negli ultimi sei mesi: "vai fino al DiPiù che facciamo la spesa".
Ah. Bene. Cosa!?
Niente. Panico totale, ma ci arrivo, parcheggio e mi complimento con me stessa, non è poi così storto.
"Al ritorno guidi te fino a casa".
Ah. Bene, Cosa!? Dovrei guidare sul vialone, fino a casa!? Mi prendi per il culo!?
Niente. Non era una presa in giro.
Ora, non è che io me la sia cavata poi così male per essere la seconda volta che guido in strada una macchina che non sia quella di scuola guida, quindi con i doppi pedali, ma il problema è il cambio. Allora, la Panda di scuola guida era bellissima, quel cambio senti subito dove va, non avevo mai dubbi su quale marcia stessi mettendo, ma Bonnie è una complicata, non è una Panda, il suo cambio è figlio di puttana, non si sente dove va con chiarezza assoluta come la Panda. Ora, immaginatevi la scena di me, persona ansiosa, a sessanta chilometri orari (giuro che non ero oltre il limite, lì è settanta. Sono una brava persona, rispetto i limiti!) che pensa a tutti i danni fisici che poteva causare a se stessa o ad altri in caso di incidente e che, dallo specchietto, poteva chiaramente vedere la faccia scoglionata di quella nella macchina dietro di lei (Signora, io comunque la P sulla macchina ce l'ho ancora, poteva superarmi e non stare a sbuffare...) che deve per forza cambiare marcia. Bene. Alzo il piede dall'acceleratore, schiaccio la frizione fino in fondo, respiro profondo, cambio marcia. Sbaglio. Non metto la terza, per un soffio e per sbaglio, metto la prima, la macchina sobbalza di brutto, reagisco in maniera rapida prima che si spegne, salvo la situazione.
Mia madre è chiaramente sbiancata, ha seriamente visto passarsi la vita davanti.
Niente, arriviamo a casa sane e salve, entro anche nel parcheggio del palazzo senza strusciare contro i piloni (gente, mi sentite scriverlo con gioia!? No, perché io ero convinta di fare Bonnie a strisce!) e, dopo mille manovre sotto consiglio, parcheggio in maniera dritta. Ora Bonnie è giù, tranquilla. Mamma è in terrazzo a parlare con la signora del piano di sotto e la sta avvertendo che la macchina è mia. E' più gasata lei di me, io ho solo messo in macchina un deodorante alla fragola con su scritto "Sono già simpatica, non posso essere anche brava a guidare", così, per avvertire chi sale...
Mi lascia le chiavi. Torno a studiare (l'ansia. Potrei fare mille battute su me che studio l'ansia, ma questa è un'altra storia), mamma torna da lavoro e decide che è il caso di andare a guidare. Ah. Se lo dici tu.
Guida lei: prima tappa benzinaio e Odino santifichi le pompe di benzina con il servizio, ché io la benzina da sola non avrei saputo farla. Seconda tappa: il parcheggio dove tutti vanno a fare pratica.
Bene. Io e Bonnie (per ora la macchina si chiama Bonnie - come Bonnie e Clyde - ma il nome è in rivalità con Bunny, la protagonista di Sailor Moon) abbiamo un problema semplice, cioè non ho confidenza con la sua frizione e il suo cambio. Faccio qualche giro, miglioro il rapporto, sembra non spegnersi più e lì arriva la frase più brutta che abbia sentito negli ultimi sei mesi: "vai fino al DiPiù che facciamo la spesa".
Ah. Bene. Cosa!?
Niente. Panico totale, ma ci arrivo, parcheggio e mi complimento con me stessa, non è poi così storto.
"Al ritorno guidi te fino a casa".
Ah. Bene, Cosa!? Dovrei guidare sul vialone, fino a casa!? Mi prendi per il culo!?
Niente. Non era una presa in giro.
Ora, non è che io me la sia cavata poi così male per essere la seconda volta che guido in strada una macchina che non sia quella di scuola guida, quindi con i doppi pedali, ma il problema è il cambio. Allora, la Panda di scuola guida era bellissima, quel cambio senti subito dove va, non avevo mai dubbi su quale marcia stessi mettendo, ma Bonnie è una complicata, non è una Panda, il suo cambio è figlio di puttana, non si sente dove va con chiarezza assoluta come la Panda. Ora, immaginatevi la scena di me, persona ansiosa, a sessanta chilometri orari (giuro che non ero oltre il limite, lì è settanta. Sono una brava persona, rispetto i limiti!) che pensa a tutti i danni fisici che poteva causare a se stessa o ad altri in caso di incidente e che, dallo specchietto, poteva chiaramente vedere la faccia scoglionata di quella nella macchina dietro di lei (Signora, io comunque la P sulla macchina ce l'ho ancora, poteva superarmi e non stare a sbuffare...) che deve per forza cambiare marcia. Bene. Alzo il piede dall'acceleratore, schiaccio la frizione fino in fondo, respiro profondo, cambio marcia. Sbaglio. Non metto la terza, per un soffio e per sbaglio, metto la prima, la macchina sobbalza di brutto, reagisco in maniera rapida prima che si spegne, salvo la situazione.
Mia madre è chiaramente sbiancata, ha seriamente visto passarsi la vita davanti.
Niente, arriviamo a casa sane e salve, entro anche nel parcheggio del palazzo senza strusciare contro i piloni (gente, mi sentite scriverlo con gioia!? No, perché io ero convinta di fare Bonnie a strisce!) e, dopo mille manovre sotto consiglio, parcheggio in maniera dritta. Ora Bonnie è giù, tranquilla. Mamma è in terrazzo a parlare con la signora del piano di sotto e la sta avvertendo che la macchina è mia. E' più gasata lei di me, io ho solo messo in macchina un deodorante alla fragola con su scritto "Sono già simpatica, non posso essere anche brava a guidare", così, per avvertire chi sale...
giovedì 7 luglio 2016
“Signorina, è sicura che non si scancella!?”.
Dopo diverso tempo che non lo facevo, vado a casa di mio padre in autobus ben sapendo che non c’era e che sarei dovuta tornare a casa con lo stesso mezzo. Dopo un pomeriggio di studio al fresco (Odino benedica le case dove non batte mai il sole!), scendo di casa sotto un sole cocente, prendo l’autobus.
A metà viaggio, sale una signora anziana, mi si siede davanti e inizia a fissarmi. Ora, okay che sono pallida come un fantasma che ho delle occhiaiei che potrei tranquillamente far passare per postumi di una rissa alla Fight Club, ma ho passato dieci lunghi minuti a chiedermi come mai mi stesse fissando. Non volevo essere inopportuna a chiedere, ma la situazione era imbarazzante. Alla fine, la signora si decide a parlare per dirmi “signorina, scusi, ma quel coso lì sulla pelle, come si chiama... il...”
Okay. Panico. Di cosa parla!? Ho un ragno sulla spalla!? Un altro insetto!? Cosa intende con “quel coso lì sulla pelle”!? Poi capisco. Parla del tatuaggio. Suggerisco la parola e la “simpatica” vecchina continua con “ecco, non mi veniva il nome... ma le viene via prima o poi!?”.
Okay. E’ una signora anziana, si diplomatica, non riderle in faccia, porta rispetto.
“Mi auguro di no...”.
La signora torna al suo mutismo, io inizio a scrivere quanto successo ad un’amica cercando di non ridere che, dai, cerchiamo di essere una persona quanto più normale possibile.
La signora suona per prenotare la fermata, traballante si alza, reggendosi al palo si ferma a metà tra il posto dove sono seduta e la porta, mi guarda e “ma signorina, è sicura che non si scancella!?".
Brividi. Freddo. Giramento di testa. Ho appena sentito usare il verbo “scancellare” che pensavo si fosse estinto dalla terra da molti secoli o almeno ci speravo. L’autobus si ferma, la signora scende. Io sono rimasta ammutolita.
“Signorina, è sicura che non si scancella!?”.
Del fatto che il tatuaggio non sparirà sono sicura, del trauma di aver (ri)sentito il verbo “scancellare” non sono sicura di riprendermi tanto presto.
A metà viaggio, sale una signora anziana, mi si siede davanti e inizia a fissarmi. Ora, okay che sono pallida come un fantasma che ho delle occhiaiei che potrei tranquillamente far passare per postumi di una rissa alla Fight Club, ma ho passato dieci lunghi minuti a chiedermi come mai mi stesse fissando. Non volevo essere inopportuna a chiedere, ma la situazione era imbarazzante. Alla fine, la signora si decide a parlare per dirmi “signorina, scusi, ma quel coso lì sulla pelle, come si chiama... il...”
Okay. Panico. Di cosa parla!? Ho un ragno sulla spalla!? Un altro insetto!? Cosa intende con “quel coso lì sulla pelle”!? Poi capisco. Parla del tatuaggio. Suggerisco la parola e la “simpatica” vecchina continua con “ecco, non mi veniva il nome... ma le viene via prima o poi!?”.
Okay. E’ una signora anziana, si diplomatica, non riderle in faccia, porta rispetto.
“Mi auguro di no...”.
La signora torna al suo mutismo, io inizio a scrivere quanto successo ad un’amica cercando di non ridere che, dai, cerchiamo di essere una persona quanto più normale possibile.
La signora suona per prenotare la fermata, traballante si alza, reggendosi al palo si ferma a metà tra il posto dove sono seduta e la porta, mi guarda e “ma signorina, è sicura che non si scancella!?".
Brividi. Freddo. Giramento di testa. Ho appena sentito usare il verbo “scancellare” che pensavo si fosse estinto dalla terra da molti secoli o almeno ci speravo. L’autobus si ferma, la signora scende. Io sono rimasta ammutolita.
“Signorina, è sicura che non si scancella!?”.
Del fatto che il tatuaggio non sparirà sono sicura, del trauma di aver (ri)sentito il verbo “scancellare” non sono sicura di riprendermi tanto presto.
domenica 3 luglio 2016
Un porto sicuro.
Quando la tua vita accelera iniziando ad evolvere velocemente, ritrovarsi sotto lo stesso palco dopo dieci anni spaventa un po', perché ti ritrovi a chiederti se ci sia ancora spazio per loro e per la te che sei quando ci sono loro di mezzo o se è arrivato il momento di chiudere anche quel capitolo. E poi tra mille sorrisi tuoi e di chi hai accanto, tra risate per una cavolata e canzoni che conosci meglio di te ti ritrovi a capire che per quanto lontano andrai, per quanto cambierai avrai sempre un porto sicuro in cui tornare.
Finley, Genova - 02 luglio 2016. |
venerdì 1 luglio 2016
L'ottava piaga d'Egitto: le cavallette.
Il "bello" di abitare in una zona dove c'è anche del verde - tanto, troppo! - è che non è raro vedersi entrare in casa insetti e/o altri animali. Ad esempio, da mio padre, che è ancora più nel nulla con campi vicini, ci sono le mini lepri - che io chiamo "lepri nane", anche se a me sembrano lepri di grande - che sono così dannatamente carine che, se riesco a prenderne una, l'adotterei volentieri. Ovvio, si compensano questi adorabili animali con ragni di varie dimensioni che non aiutano la mia aracnofobia, soprattutto quando sono a dormire lì, mio padre è fuori casa e io sono in casa da sola con un ragno troppo grosso per farmi stare tranquilla anche se sono chiusa in camera mia e lui è in sala.
Da mia madre, invece, la cosa è più comica: nella casa prima, a venticinque metri da qua, avevamo un'invasione di gechi. Ora, io non ho paura, ma non è che fossero proprio belli eh! Erano bianchicci e in casa, soprattutto in primavera e in estate, spuntavano ovunque. Per questa sovrappopolazione ho sempre incolpato mio padre, oltre che il fatto di poter dire di vivere quasi in campagna, perché fino a qualche anno fa, aveva la mania di "salvare" gli animali che trovava nelle stive delle navi e liberarli nei campi - sappi, tu che stai leggendo, che ha rianimato delle rane nere che erano mezze tramortite, a distanza di tempo, ha scoperto essere velenose e si era messo un geco, quello carino, nella ex casa, quindi gli do la colpa per un motivo!- ma questa è un'altra storia. Dicevamo, i gechi sono rimasti di là, a volte mi mancano pure un po', anche se non ero una grande fan di ritrovarmeli in camera, qua a parte qualche ragno, qualche vespa e qualche ape fino a ieri notte non ci sono stati grandi incontri. Appunto, fino a ieri notte.
Cos'è successo!? Iniziamo dal principio: l'una passata di notte, ho messo le mani sul PDF di un racconto collegato ad una saga che avevo letto molti molti anni fa, tutta bella gasata mi metto a leggerla al computer, tanto il sonno era lontano, mandando i commenti ad un'amica. Alle mie spalle, dalla libreria si sente uno "stoc". Boh, mi giro, vedo una cosa che sembra uno dei miei soprammobili caduti, penso "ah, vabbe, ci sarà stata una scossetta di terremoto e l'avrà fatto cadere", mi alzo per metterlo apposto, mi blocco a metà strada: cavalletta. Cavalletta grossa. Tanto grossa.Troppo grossa. Jurassic Park aveva dinosauri più piccoli e meno spaventosi - sì, okay, io sono di parte che vorrei che esistesse davvero un parco così.
Bene. Cazzo facciamo ora!? Tu, cavalletta enorme sei in camera mia, io con te in camera non ci sto. Si muove, finisco fuori camera in tre decimi di secondo, roba che neanche Bolt. Madre dorme, stranamente, quella ha più difficoltà di me a dormire e quando mi serve dorme!
Dopo un'interminabile mezz'ora alla ricerca di una via di fuga sia per me che per l'ottava piaga d'Egitto, arrivo ad una conclusione: vado a dormire in sala. Ecco, sì, idea geniale se non fosse che la cavalletta era sul muro proprio sopra al mio letto e io avrei dovuto avvicinarmi a quella cosa per prendere quanto meno il cuscino. Niente, entro di corsa, prendo il cuscino, scappo di camera chiudendo la porta rumorosamente, che non si è svegliato nessuno e Dio solo sa come sia stato possibile.
Ho passato la notte sul divano, con il cane che ogni tanto cercava di salire sul divano, che tra madre che non vuole e il caldo, amore mio stai giù, gli orologi che ticchettavano fuori sincrono e l'ansia che il mostro riuscisse a passare da sotto alla porta.
Alla fine, comunque, stamani madre ha educatamente - io non sono stata educatamente sfrattata di camera, perché lei sì!? - sfrattato fuori casa il redivivo dinosauro, che ora è chissà dove all'aperto e io sono convinta che tornerà a vendicarsi, portandosi dietro tutte le cavallette dell'ottava piaga d'Egitto, compresi i fantasmi dei suoi antenati che hanno ispirato la bibbia.
Morale della favola: sarò anche cresciuta giocando nei campi, ma non sono adatta a vivere dove c'è tanto vere. Qua gli animali sono troppo grossi ed arroganti.
Da mia madre, invece, la cosa è più comica: nella casa prima, a venticinque metri da qua, avevamo un'invasione di gechi. Ora, io non ho paura, ma non è che fossero proprio belli eh! Erano bianchicci e in casa, soprattutto in primavera e in estate, spuntavano ovunque. Per questa sovrappopolazione ho sempre incolpato mio padre, oltre che il fatto di poter dire di vivere quasi in campagna, perché fino a qualche anno fa, aveva la mania di "salvare" gli animali che trovava nelle stive delle navi e liberarli nei campi - sappi, tu che stai leggendo, che ha rianimato delle rane nere che erano mezze tramortite, a distanza di tempo, ha scoperto essere velenose e si era messo un geco, quello carino, nella ex casa, quindi gli do la colpa per un motivo!- ma questa è un'altra storia. Dicevamo, i gechi sono rimasti di là, a volte mi mancano pure un po', anche se non ero una grande fan di ritrovarmeli in camera, qua a parte qualche ragno, qualche vespa e qualche ape fino a ieri notte non ci sono stati grandi incontri. Appunto, fino a ieri notte.
Cos'è successo!? Iniziamo dal principio: l'una passata di notte, ho messo le mani sul PDF di un racconto collegato ad una saga che avevo letto molti molti anni fa, tutta bella gasata mi metto a leggerla al computer, tanto il sonno era lontano, mandando i commenti ad un'amica. Alle mie spalle, dalla libreria si sente uno "stoc". Boh, mi giro, vedo una cosa che sembra uno dei miei soprammobili caduti, penso "ah, vabbe, ci sarà stata una scossetta di terremoto e l'avrà fatto cadere", mi alzo per metterlo apposto, mi blocco a metà strada: cavalletta. Cavalletta grossa. Tanto grossa.Troppo grossa. Jurassic Park aveva dinosauri più piccoli e meno spaventosi - sì, okay, io sono di parte che vorrei che esistesse davvero un parco così.
Bene. Cazzo facciamo ora!? Tu, cavalletta enorme sei in camera mia, io con te in camera non ci sto. Si muove, finisco fuori camera in tre decimi di secondo, roba che neanche Bolt. Madre dorme, stranamente, quella ha più difficoltà di me a dormire e quando mi serve dorme!
Dopo un'interminabile mezz'ora alla ricerca di una via di fuga sia per me che per l'ottava piaga d'Egitto, arrivo ad una conclusione: vado a dormire in sala. Ecco, sì, idea geniale se non fosse che la cavalletta era sul muro proprio sopra al mio letto e io avrei dovuto avvicinarmi a quella cosa per prendere quanto meno il cuscino. Niente, entro di corsa, prendo il cuscino, scappo di camera chiudendo la porta rumorosamente, che non si è svegliato nessuno e Dio solo sa come sia stato possibile.
Ho passato la notte sul divano, con il cane che ogni tanto cercava di salire sul divano, che tra madre che non vuole e il caldo, amore mio stai giù, gli orologi che ticchettavano fuori sincrono e l'ansia che il mostro riuscisse a passare da sotto alla porta.
Alla fine, comunque, stamani madre ha educatamente - io non sono stata educatamente sfrattata di camera, perché lei sì!? - sfrattato fuori casa il redivivo dinosauro, che ora è chissà dove all'aperto e io sono convinta che tornerà a vendicarsi, portandosi dietro tutte le cavallette dell'ottava piaga d'Egitto, compresi i fantasmi dei suoi antenati che hanno ispirato la bibbia.
Morale della favola: sarò anche cresciuta giocando nei campi, ma non sono adatta a vivere dove c'è tanto vere. Qua gli animali sono troppo grossi ed arroganti.
lunedì 27 giugno 2016
L'applicazione dei ricordi di Facebook mi ha ricordato una frase che scrissi la sera del funerale di nonna.
Sei anni e mi sembra ieri.
Il messaggio di una chiamata da parte di mio padre mentre non ero raggiungibile, in un orario che non era quello solito, io che capisco ancora prima di richiamare cosa mi dovesse dire.
Mamma che non mi vuole lasciare a casa da sola, come invece aveva fatto mille altre volte quando andava a lavorare.
Un vecchio peluche bagnato di lacrime, una canzone in riproduzione dal iPod azzurro per tutta la notte.
Il messaggio di una chiamata da parte di mio padre mentre non ero raggiungibile, in un orario che non era quello solito, io che capisco ancora prima di richiamare cosa mi dovesse dire.
Mamma che non mi vuole lasciare a casa da sola, come invece aveva fatto mille altre volte quando andava a lavorare.
Un vecchio peluche bagnato di lacrime, una canzone in riproduzione dal iPod azzurro per tutta la notte.
Una bara chiusa in una camera da letto, quella con l'armadio con delle venature che a me hanno sempre fatto paura, perché con la fantasia di bambina ci vedevo delle facce spaventose.
Il corteo funebre, il passo incerto di nonno, ma tutta il suo dolore composto.
Ricordo tutto. Come ricordo ancora che non l'hanno messa giù il giorno stesso, quella bara, ma il giorno dopo mentre io ero in ospedale a togliermi le viti esterne che avevo portato per sei mesi. Che beffa, io che mi sono sempre sforzata di andarla a trovare anche quando era diventata una donnina piccola piccola con il viso scavato dagli occhi vuoi che non solo non mi riconosceva più, ma neanche mi vedeva, non sono potuta esserci. Come non c'ero il giorno che se n'è andata in una stanza da sola.
Ricordo tutto. Come ricordo ancora che non l'hanno messa giù il giorno stesso, quella bara, ma il giorno dopo mentre io ero in ospedale a togliermi le viti esterne che avevo portato per sei mesi. Che beffa, io che mi sono sempre sforzata di andarla a trovare anche quando era diventata una donnina piccola piccola con il viso scavato dagli occhi vuoi che non solo non mi riconosceva più, ma neanche mi vedeva, non sono potuta esserci. Come non c'ero il giorno che se n'è andata in una stanza da sola.
Sei anni e ho ancora il senso di colpa che se n'è andata in solitudine, cosa che se lo dicessi a qualcuno mi direbbe "non se ne sarebbe accorta, oramai non capiva più", ma questo non cambia per me.
Sei anni dopo, riesco finalmente ad andare oltre ai ricordi brutti degli ultimi anni, alle volte che ripeteva all'infinito le cose, al suo fare azioni insensate, al dire cose senza senso, a non riconoscermi più. Riesco ad andare oltre, a tenere i momenti di lucidità come piccole perle rare, a ricordarmi di quanto fosse difficile starle dietro in bicicletta, dei pomeriggi con lei, del suo modo di darmi affetto stando attenta a prepararmi ogni sabato per pranzo qualcosa che mi piacesse anche quando magari non stava benissimo.
Sei anni dopo mi sento una persona diversa da quella sedicenne al suo primo lutto, ma nonostante gli anni, nonostante sia cresciuta, nonostante sia inciampata mille altre volte, nonostante tante cose, sei anni dopo riesco ancora a farmi scappare una lacrima, perché nonostante tutto, fino a che la malattia non le ha strappato ogni singolo ricordo, era pur sempre quella nonna che ti vuole bene incondizionatamente, nonostante tutto, nonostante tutti.
(Tra quattro ore e mezza suona la sveglia, fa caldo, non ho sonno, ho l'ansia per un esame e vorrei essere altrove. Trascrivere le parole dalla grafia più confusa dal mondo mi ha quasi fatto venire mal di testa. Ultimamente sono proprio fuori forma.)
Sei anni dopo, riesco finalmente ad andare oltre ai ricordi brutti degli ultimi anni, alle volte che ripeteva all'infinito le cose, al suo fare azioni insensate, al dire cose senza senso, a non riconoscermi più. Riesco ad andare oltre, a tenere i momenti di lucidità come piccole perle rare, a ricordarmi di quanto fosse difficile starle dietro in bicicletta, dei pomeriggi con lei, del suo modo di darmi affetto stando attenta a prepararmi ogni sabato per pranzo qualcosa che mi piacesse anche quando magari non stava benissimo.
Sei anni dopo mi sento una persona diversa da quella sedicenne al suo primo lutto, ma nonostante gli anni, nonostante sia cresciuta, nonostante sia inciampata mille altre volte, nonostante tante cose, sei anni dopo riesco ancora a farmi scappare una lacrima, perché nonostante tutto, fino a che la malattia non le ha strappato ogni singolo ricordo, era pur sempre quella nonna che ti vuole bene incondizionatamente, nonostante tutto, nonostante tutti.
(Tra quattro ore e mezza suona la sveglia, fa caldo, non ho sonno, ho l'ansia per un esame e vorrei essere altrove. Trascrivere le parole dalla grafia più confusa dal mondo mi ha quasi fatto venire mal di testa. Ultimamente sono proprio fuori forma.)
martedì 7 giugno 2016
Ho resistito due mesi abbondanti senza fumare, senza neanche sentirne un desiderio poi così profondo se non in rari momenti e, anzi, stavo anche iniziando a ringraziare la mia decisione per i benefici che mi ha portato (tranne quando fiutavo qualche odore sgradevole, lì preferivo non sentire così bene) quando ieri, in preda dall'ansia di un esame me ne sono fatta dare una, perché o fumavo o fumavo, le cose erano due. Sarà stato l'ansia dell'esame, sarà stato che fino all'ultimo non sapevo neanche se l'avrei dato o se mi sarei finta non presente, sarà che mi chiedevo il senso di averlo preparato senza però sentirmi preparata, ma le sigarette me le sono pure andata a comprare.
E niente, poi l'esame (mezzo, l'altra metà a quando sarà) è andato bene, più di quanto sperassi (anche perché la mia speranza in preda al "io non lo do, non so un cazzo se non la guerra di anglo-borea che manco loro sanno di averla fatta!" era un misero 18, da tirare su con l'altra metà), ma mi sento in colpa per quel pacchetto nella borsa. Forse, non sono pronta a smettere che le dipendenze riempiono i vuoti e di vuoti ne ho fin troppi, vorrei averli anche di tempo, che oramai vedo solo quei due libri dell'esame, così tanto da sognarmeli la notte.
Niente, ho tanti pensieri per la testa ultimamente, ma neanche un momento per fermarmi a scrivere per svuotarmi la testa, perché sono un'ambiziosa e una perfezionista (un'amica direbbe "sei un'ansiosa cagacazzi") e voglio preparare quest'altra metà di esame, perché oltre a piacermi di più è anche quella dove ho più argomenti che conosco già di mio, che mi piacciono o posso fare collegamenti extra oltre alle lezioni, così riempio il tempo che dovrei spendere a pensare a risolvere 'sto caos, lo impegno a studiare.
Ora torno alle mie slide che la crisi del 1929 mi chiama o forse è mia madre per la cena, non lo capisco bene.
E niente, poi l'esame (mezzo, l'altra metà a quando sarà) è andato bene, più di quanto sperassi (anche perché la mia speranza in preda al "io non lo do, non so un cazzo se non la guerra di anglo-borea che manco loro sanno di averla fatta!" era un misero 18, da tirare su con l'altra metà), ma mi sento in colpa per quel pacchetto nella borsa. Forse, non sono pronta a smettere che le dipendenze riempiono i vuoti e di vuoti ne ho fin troppi, vorrei averli anche di tempo, che oramai vedo solo quei due libri dell'esame, così tanto da sognarmeli la notte.
Niente, ho tanti pensieri per la testa ultimamente, ma neanche un momento per fermarmi a scrivere per svuotarmi la testa, perché sono un'ambiziosa e una perfezionista (un'amica direbbe "sei un'ansiosa cagacazzi") e voglio preparare quest'altra metà di esame, perché oltre a piacermi di più è anche quella dove ho più argomenti che conosco già di mio, che mi piacciono o posso fare collegamenti extra oltre alle lezioni, così riempio il tempo che dovrei spendere a pensare a risolvere 'sto caos, lo impegno a studiare.
Ora torno alle mie slide che la crisi del 1929 mi chiama o forse è mia madre per la cena, non lo capisco bene.
lunedì 30 maggio 2016
Ho fatto l'abbonamento alla sfiga pensando fosse quello per la pizzeria #5.
Io sono quel tipo di persona che suda sette camice per riuscire a prendere la patente (sono riuscita a prenderla! Ho fatto un parcheggio più storto della torre di Pisa, ma la patente l’ho presa!), ma sbagliano a stamparci la firma sopra, quindi patente da rifare e da ritirare “prossimamente”.
Questo mi fa capire una cosa: il Karma dice che non devo guidare.
lunedì 23 maggio 2016
In questi giorni cadrebbe il compleanno di nonno, se fosse ancora vivo, forse è per questo che lo penso più del solito o forse perché ritrovandomi l'ascesa del Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale pensarlo è un atto naturale, con tutte le cose che mi raccontava da piccola, con tutte le canzoni che mi cantava. Nonno non era di certo uno da mettersi a cantare "Nel blu dipinto di blu", no, era più uno da "Bella Ciao", ma per parcondicio e per cultura mi ha cantanto anche "Faccetta nera", me lo ricordo ancora quell'omone che io vedevo gigante spiegarmi che le conosceva perché a scuola non le poteva evitare. Me le cantava tutte, di sinistra e di destra, ma poi io crescendo gli chiedevo solo "Bella ciao", mi piaceva il sentimento con cui la cantava, forse perché la sentiva sua, questo l'ho pensato dopo, ma troppo tardi per poterglielo chiedere. Oggi l'ho pensato a cantare, perché ho letto "abisinia" sul libro, allora ho chiesto a mio padre in quale canzone fosse e mi ha guardata stupito, ché mi ricoravo le canzoni che mi cantava suo padre, non gliel'ho mica detto che nei momenti d'ansia di cui non sa niente ripenso proprio a lui che canta in poltrona. Io nonno me lo ricordo così, come me lo ricordo bellissimo nonostante gli anni e una malattia della pelle antiestetica; me lo ricordo con quei capelli neri che hanno perso colore solo nell'ultimo anno, diventando un nero/grigio, in totale contrasto con gli occhi chiari, che nessuno ha ereditato in casa o meglio, nessuno li ha esattamente di quel colore che non ho mai ritrovato. Me lo ricordo gigante, anche se, forse, era nella medie ed io lo vedevo gigante, perché per me era un uomo grande e forte in tanti sensi, mi piacerebbe avere la sua forza, in tanti campi. Me lo ricordo anche piccolissimo e fragile, come nell'anno dopo che se n'è andata nonna: a starle dietro ha perso smalto, ma senza di lei ha perso una fiamma che si è spenta con lei, ha lasciato un po' di brace, ma poi si è spenta anche quella; me lo ricordo nel letto che divideva con nonna, io che mi ostinavo a parlargli della scuola, di qualcosa di me, per farlo stare acceso, per farlo parlre, a volte vorrei sapere se è servito a qualcosa, se gli faceva piacere, ma soprattuttp me lo ricordo in una camera d'ospedale in cui non mi ha riconosciuto ed ha fatto male, malissimo, così male da non rimetterci più piede e io sola so quanti di sensi di colpa ho per non aver più accompagnato mio padre, per non essere stata forte abbastanza da stare fino all'ultimo con la mia ancora. Nonno aveva i suoi difetti, non era perfetto, come tutti in casa era testardo, orgoglioso, non mostrava le emozioni e l'affetto, o meglio lo faceva a modo suo, ma con tutta la situazione che c'è in casa, mi piacerebbe che fosse ancora qui, perché forse almeno lui riuscirebbe a fare qualcosa per far ragionare mia cugina, per far si che almeno ogni tanto si possa vedere quello scricciolino che cresce e io non so come. Oggi sono nostalgica, fragile, mi manca quell'uomo forse che oramai avrebbe raggiunto i novantuno, gli avrei chiesto di cantarmi ancora una volta "Bella ciao", l'avrei osservato cantarla ad occhi chiusi mentre io sorridevo, perché accanto a lui andava tutto bene, anche quando niente andava bene. "I feel you in the wind, you guide me constantly". (Quanto è brutto scrivere dal cellulare che non a capo e si blocca ogni tre parole.)
sabato 21 maggio 2016
A bite of silly happiness #3
Whatsapp è andato in palla, non mi arrivavano i messaggi, presa da altre cose non ci ho neanche fatto caso. Lo apro, di colpo iniziano ad arrivare messaggi su messaggi, molti inutili da gente che parla su un gruppo universitario dei cavoli propri, altri messaggi da amiche e poi tre audio da una persona che sento di rado, tre audio da un concerto.
Una band che seguo da anni, che mi porto sulla pelle e che mi manca. Tre audio, il primo è la canzone che ho sentito per giorni quando nonna se n'è andata, l'altra è una delle prime e poi la voce del cantante che presenta il concerto, una voce che conosco bene come quella dei miei amici. Ho gli occhi lucidi, non me lo aspettavo o, se proprio dovevo aspettarmi qualcosa me lo aspettavo da altre persone su altre canzoni, ma non da lei e non su queste.
Io sorrido, emozionata come una bambina, perché io faccio queste cose, ma non mi aspetto mai che le facciano per me, poco tempo fa mi è capitato con un audio di una band canadese in cui mi hanno fatto salutare, una volta con degli auguri, ma mai come ora che cedo a scrivere, perché loro, quelli di questa sera, sono un'altra cosa, un'altra storia e io ora sorrido, perché è bello sapere che a chilometri c'è qualcuno che ha un piccolo pensiero come questo, una cosa da poca che conta tanto.
Una band che seguo da anni, che mi porto sulla pelle e che mi manca. Tre audio, il primo è la canzone che ho sentito per giorni quando nonna se n'è andata, l'altra è una delle prime e poi la voce del cantante che presenta il concerto, una voce che conosco bene come quella dei miei amici. Ho gli occhi lucidi, non me lo aspettavo o, se proprio dovevo aspettarmi qualcosa me lo aspettavo da altre persone su altre canzoni, ma non da lei e non su queste.
Io sorrido, emozionata come una bambina, perché io faccio queste cose, ma non mi aspetto mai che le facciano per me, poco tempo fa mi è capitato con un audio di una band canadese in cui mi hanno fatto salutare, una volta con degli auguri, ma mai come ora che cedo a scrivere, perché loro, quelli di questa sera, sono un'altra cosa, un'altra storia e io ora sorrido, perché è bello sapere che a chilometri c'è qualcuno che ha un piccolo pensiero come questo, una cosa da poca che conta tanto.
venerdì 6 maggio 2016
Sono tornava a scrivere racconti, a vivere la scrittura come qualcosa che mi viene naturale fare, senza provarci ("don't try"), la mia via di fuga da una vita che non è come vorrei. Scrivo un sacco, quando sono lontana da questa casa e dal mio computer soffro un po', allora ci sono giorni che prendo carta e penna e scrivo lì. Era una cosa che mi mancava, questa urgenza di scrivere, di cercare la parola giusta per senso e suono, mi era mancata in maniera quasi dolorosa. No, farmi leggere ancora no, non sono pronta, c'è solo un'amica che legge le pagine che scrivo in questo senso, perché sono solo un allenamento dopo gli anni di lontananza. Non sono le pagine che vorrei, ma a volte mi piacciono, a volte, lei che è l'unica di cui mi fido per avere un commento critico, si è pure emozionata a leggere.
Scrivo tanto, ma non scrivo di quello che ho dentro, della rabbia sotto pelle degli ultimi giorni, dello stress, delle cose che non mi vanno giù; non scrivo delle giornate semplici, del cinema, dello riuscire a strappare la gioia in qualche amica, delle risate a lezione. Non scrivo di me. Mi distacco per quieto vivere e so che, questa cosa, non ha mai portato niente di buono, ma non riesco a fare diversamente. E' sopravvivenza.
Stasera esco, continuo a dover essere totalmente astemia, continuo con il mio proposito di aver smesso di fumare (anche se, negli ultimi giorni, mi manca più di quanto mi mancasse un mese e mezzo fa), sono stanche di molte facce che ho intorno, ma continuo a scolpirmi un sorriso sul viso e cucirmi le risate addosso. Va bene così.
Scrivo tanto, ma non scrivo di quello che ho dentro, della rabbia sotto pelle degli ultimi giorni, dello stress, delle cose che non mi vanno giù; non scrivo delle giornate semplici, del cinema, dello riuscire a strappare la gioia in qualche amica, delle risate a lezione. Non scrivo di me. Mi distacco per quieto vivere e so che, questa cosa, non ha mai portato niente di buono, ma non riesco a fare diversamente. E' sopravvivenza.
Stasera esco, continuo a dover essere totalmente astemia, continuo con il mio proposito di aver smesso di fumare (anche se, negli ultimi giorni, mi manca più di quanto mi mancasse un mese e mezzo fa), sono stanche di molte facce che ho intorno, ma continuo a scolpirmi un sorriso sul viso e cucirmi le risate addosso. Va bene così.
martedì 26 aprile 2016
Storie di ordinaria odontoiatria.
Non riesco a scrivere, l'anestesia sta svanendo e inizio a sentire un dolore lancinante alla bocca (no, davvero, a confronto la gamba rotta era niente anche dopo l'operazione!), ma riassumo la mia vita con il chirurgo che deve togliermi il dente del giudizio che guarda la lastra, guarda la mia bocca, e dopo aver appurato che mi chiamo "Mara" decide di soprannominarmi "Mai 'na", come "Mai 'na gioia".
venerdì 22 aprile 2016
giovedì 14 aprile 2016
Sono stata via da casa per diversi giorni, avevo bisogno di staccare la spina da tutto, come avevo bisogno di sorrisi sinceri, di un concerto (e che concerto! Se amavo i The 1975 prima, ora è tutto amplificato!), di lunghi viaggi in treno, di abbracci, di tutte quelle cose belle che avevo bisogno di ricordarmi in questo periodo.
Oggi, però, sono tornata alla normalità: sveglia presto, pendolarità, Università, corse a casa per mangiare un boccone prima di andare a scuola guida, dieta ferrea da “dobbiamo capire che problemi hai”, biglietti sulla scrivania che ti avvertono di “estrazione chirurgica complessa”, persone a cui stare vicino e persone da cui vorrei solo stare lontana.
Tengo con me i sorrisi, anche se i ritorni non sono mai belli come le partenze.
Oggi, però, sono tornata alla normalità: sveglia presto, pendolarità, Università, corse a casa per mangiare un boccone prima di andare a scuola guida, dieta ferrea da “dobbiamo capire che problemi hai”, biglietti sulla scrivania che ti avvertono di “estrazione chirurgica complessa”, persone a cui stare vicino e persone da cui vorrei solo stare lontana.
Tengo con me i sorrisi, anche se i ritorni non sono mai belli come le partenze.
mercoledì 6 aprile 2016
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Non riesco a togliermi dalla testa il primo rintocco della campana, un vento fresco che inizia a soffiare leggero sulle persone rimaste fuori dalla chiesa, su quelle che stanno uscendo mentre le moto parcheggiate sul piazzale della chiesa vengono fatte rombare, qualcuno urla un ciao e dei palloncini salgono rapidi verso l'azzurro, tranne alcuni. Alcuni no, restanno introppalati in un albero, così mentre numerosi palloncini con le scritte delle persone più vicine salgono sempre di più, un cuore rosso insieme ad un numero ristretto di palloncini bianchi sono incastrati in un albero spoglio, ma pieno di grmme. La mamma della mia amica ha mormorato "non se ne vuole andare", io continuavo a guardarli pensando solo "che cosa ingiusta la vita", in testw quello successo poco prima. La mia amica, una delle poche cose buone degli anni delle superiori, si presenta composta, entta composta ed esce composta: è una roccia. E' una roccia, ma mi mormora che non si aspettava la nostra presenza, mormora che oggi non se l'è sentita di andare a vederlo, come darle torto!? Io non sarei andata neanche gli altri giorni. Scrivo tutto questo per bisogno di metabolizzare, perché io ho visto e assorbito il dolore altrui ascoltando le parole di un prete a cui avrei voluto rispondere che erano solo ciance, ma ora a casa da sola, con solo il telefono per scrivere (infatti non posso andare a capo) inizio a sentirmi veramente triste, vuota, anche un po' ij colpa con lui là dentro ed io viva e vegeta. Non la capisco questa cosa della morte, di un Dio misericordioso che porta a sé un ragazzo al fiore degli anni, uno che rendeva Felice una mia amica. Non si porta via unocosì giovane e così buona, a cui tanta gente voleva bene.
venerdì 1 aprile 2016
Ho ventidue anni, per me la morte dovrebbe essere un concetto astratto o qualcosa di legato a qualcuno di più avanti con l'età, invece stasera sono davanti ad un computer con gli occhi lucidi a cercare parole che non ci sono, che non so neanche se esitano. Volevo prendere una penna e scrivere a mano, ma le mie mani tremano, come buona parte del mio corpo, batto a computer per esorcizzare il dolore, lo shock.
A ventidue anni non si può morire, tanto più su una strada per uno sbaglio, per una distrazione, che sia proprio o di un altro poco importa, non si può proprio morire. A ventidue anni non si può morire e basta.
Chi era? Uno sconosciuto per me, il ragazzo di un'amica - una cara amica - visto forse un paio di volte. Un ragazzo okay, uno che si presenta sorridendo educatamente, come è raro vedere in una generazione di arroganti che devono per forza fare i duri. Uno che non era una testa di cazzo fattone che te lo aspetti possa succedergli qualcosa, era uno okay.
Lei chi è? Lei è una persona stupenda, una di quelle che mi ritengo fortunata a conoscere, una di quelle per cui stavo già cercando le parole per il suo compleanno che è tra due giorni.
Io? Io sono qua, scrivo parole a caso, perché ho ventidue anni, un'amica a pezzi che non riesco a contattare, perché - giustamente - non risponde a nessuno, perché al suo posto lo farei anch'io, da cui non posso andare, perché sono a piedi, perché devo aspettare domani che io ed un'amica troviamo la forza di andare a tenere uniti i pezzi di una persona che è finita in un miliardo di pezzi. Ho un dolore sordo dentro al petto, non capisco cosa fare, come si reagisce ad un coetaneo che se ne va così, da un momento all'altro.
Io che dicono tutti che con le parole ci so fare, io che sono quella che sa esserci per tutti, io non so cosa cazzo devo fare o cosa cazzo devo dire.
E Dio santo, come cazzo si fa a morire a ventidue anni? No, io non lo accetto, non ci riesco.
E come si fa a dirmi da una vita che devo per forza credere in qualcosa quando succedono 'ste cose a chi non se lo merita proprio per niente? Io credo solo che tutto questo non può essere davvero reale.
A ventidue anni non si può morire, tanto più su una strada per uno sbaglio, per una distrazione, che sia proprio o di un altro poco importa, non si può proprio morire. A ventidue anni non si può morire e basta.
Chi era? Uno sconosciuto per me, il ragazzo di un'amica - una cara amica - visto forse un paio di volte. Un ragazzo okay, uno che si presenta sorridendo educatamente, come è raro vedere in una generazione di arroganti che devono per forza fare i duri. Uno che non era una testa di cazzo fattone che te lo aspetti possa succedergli qualcosa, era uno okay.
Lei chi è? Lei è una persona stupenda, una di quelle che mi ritengo fortunata a conoscere, una di quelle per cui stavo già cercando le parole per il suo compleanno che è tra due giorni.
Io? Io sono qua, scrivo parole a caso, perché ho ventidue anni, un'amica a pezzi che non riesco a contattare, perché - giustamente - non risponde a nessuno, perché al suo posto lo farei anch'io, da cui non posso andare, perché sono a piedi, perché devo aspettare domani che io ed un'amica troviamo la forza di andare a tenere uniti i pezzi di una persona che è finita in un miliardo di pezzi. Ho un dolore sordo dentro al petto, non capisco cosa fare, come si reagisce ad un coetaneo che se ne va così, da un momento all'altro.
Io che dicono tutti che con le parole ci so fare, io che sono quella che sa esserci per tutti, io non so cosa cazzo devo fare o cosa cazzo devo dire.
E Dio santo, come cazzo si fa a morire a ventidue anni? No, io non lo accetto, non ci riesco.
E come si fa a dirmi da una vita che devo per forza credere in qualcosa quando succedono 'ste cose a chi non se lo merita proprio per niente? Io credo solo che tutto questo non può essere davvero reale.
martedì 15 marzo 2016
Ho di nuovo la febbre che sale, sale e sale, a momenti vedo gli unicorni volare, ma ho dormito tutto il giorno e non ho sonno. Avrei voglia di gelato però, che allevierebbe questo dannato fastidio-dolore alla gola, ma in casa non ce n'è, fuori è tutto chiuso e allora me ne andrò al caldo sotto alle coperte, sperando di riuscire a crollare nelle braccia di Morfeo per una febbricitante dormita.
Ieri è stata una giornata bella, bellissima, la musica è una cosa bellissima "[...] supportare la musica è un gesto d'amore").
Ieri è stata una giornata bella, bellissima, la musica è una cosa bellissima "[...] supportare la musica è un gesto d'amore").
sabato 12 marzo 2016
Io sono stanca di sentirmi dire che capisco sempre tutto, ma soprattutto tutti, perché a volte per riuscirci mi costa sforzi non indifferenti, che gli altri non vedono o fingono di non vedere, ma chi è che si sforza di capire me? Anche senza risultati perfetti, ma chi è che fa questo sforzo?
Io sono pure un po' stanca di tutto questo.
Io sono pure un po' stanca di tutto questo.
giovedì 10 marzo 2016
Tatuatore: diventerai anche rossa, ma te lo devo dire: hai la pelle perfetta da tatuare.
-: sì?
T.: Sì, ti spiego perché: primo, hai la pelle chiara. Secondo, prende da Dio il colore. Forse non dovevo dirtelo, ora ti riempi dalla faccia che hai fatto!
Oggi ve la riassumo così. Il braccio è indolenzito più per essere stato fermo per un'ora e mezza, più che per essermi fatta scrivere sulla pelle quelle parole che mi guidano e mi guideranno.
(E lui era pure carino.)
-: sì?
T.: Sì, ti spiego perché: primo, hai la pelle chiara. Secondo, prende da Dio il colore. Forse non dovevo dirtelo, ora ti riempi dalla faccia che hai fatto!
Oggi ve la riassumo così. Il braccio è indolenzito più per essere stato fermo per un'ora e mezza, più che per essermi fatta scrivere sulla pelle quelle parole che mi guidano e mi guideranno.
(E lui era pure carino.)
lunedì 7 marzo 2016
Ho fatto l’abbonamento alla sfiga pensando fosse quello per la pizzeria #4.
Sveglia alle 5:25, perché Padre è a Livigno a fare la bella vita, io per andare in stazione devo tassativamente prendere l’autobus che passa alla stessa ora in cui, generalmente, mi alzo. Fatto sta che le 5:25 diventano le 5:35 e, poi, 5:40, sono in mega ritardo, devo prepararmi di corsa. Corro fuori e... il deserto. Alle sei di mattina, in un paesino minuscolo chi vuoi che ci sia in giro? Io, il barista che ha appena aperto e l’Uomo Talpa (avete presente l’Uomo Talpa dei Simpson!? Questo è uguale!). Salgo in autobus praticamente in autonomia, perché il caffè mica ho avuto il tempo di prenderlo prima di uscire di casa, l’autista che non saluta mai, mi saluta... m’hai visto disperata e volevi essere cordiale!? La mattina ti mette di buon umore!?
Continuo a camminare in mezzo al deserto, dove al posto di qualche beduino, trovo solo qualche pendolare sconsolato ed infreddolito. Entro nel bar della stazione, nonostante il caffè faccia schifo, ma ne avevo un estremo bisogno dove mi trovo la barista ed il barista (che dice “sabato” aggiungendoci altre due “t”) che parlano dei problemi di prostata di non-so-chi, discorso che si conclude con “sono dell’idea che tanto tutti prima o poi dobbiamo morire” (no, ma dai!?). Esco da lì ancora più sconsolata di prima.
Arrivo a Pisa, tutto perfetto, sembra la svolta, inizio quasi a pensare “oh, oggi non sta poi andando tanto male”... mai farlo. MAI!
Cinquanta minuti di film muto, di cui ricordo solo una tizia che si arrampica sul muro e nel farlo sembra uscita dall’Esorcista (secondo me, era la bisnonna della bambina dell’Esorcista), seguito da mezz’ora di lezione in cui non riesco a mettere a fuoco niente perché il film mi ha fatto sentire la stanchezza della sveglia troppo presto per i miei standard.
Arrivo in stazione, vedo un’amica e stranamente prendiamo il treno insieme (la gioia!), forse riesco pure a prendere l'autobus delle 18:55, anziché quello delle otto passate. Mh, sì, idea poco geniale: due sfortunate insieme volete che non si ritrovano bloccate in una stazione dimenticata da Odino perché una tizia sembra che sia stata investita da un treno? In pratica, per arrivare a casa ho fatto il giro dei sette colli (Odino santifica la buona E. e mia zia, davvero!), alle otto passate di sera, in stile zombie che più zombie non si può e per concludere la giornata vengo bullizzata da mio padre che, alla notizia che la ragazza è rimasta tra due treni uscendone praticamente illesa (”contusione alla caviglia”... mi sono fatta più male io sugli sci. Questa è stata graziata da Dio!) se ne esce con “Già e in più ti ha rotto le palle a te :D”.
Bene, direi che per evitare di sfidare ancora di più la Leggi di Murphy me ne vado al sicuro a letto. E’ meglio.
Continuo a camminare in mezzo al deserto, dove al posto di qualche beduino, trovo solo qualche pendolare sconsolato ed infreddolito. Entro nel bar della stazione, nonostante il caffè faccia schifo, ma ne avevo un estremo bisogno dove mi trovo la barista ed il barista (che dice “sabato” aggiungendoci altre due “t”) che parlano dei problemi di prostata di non-so-chi, discorso che si conclude con “sono dell’idea che tanto tutti prima o poi dobbiamo morire” (no, ma dai!?). Esco da lì ancora più sconsolata di prima.
Arrivo a Pisa, tutto perfetto, sembra la svolta, inizio quasi a pensare “oh, oggi non sta poi andando tanto male”... mai farlo. MAI!
Cinquanta minuti di film muto, di cui ricordo solo una tizia che si arrampica sul muro e nel farlo sembra uscita dall’Esorcista (secondo me, era la bisnonna della bambina dell’Esorcista), seguito da mezz’ora di lezione in cui non riesco a mettere a fuoco niente perché il film mi ha fatto sentire la stanchezza della sveglia troppo presto per i miei standard.
Arrivo in stazione, vedo un’amica e stranamente prendiamo il treno insieme (la gioia!), forse riesco pure a prendere l'autobus delle 18:55, anziché quello delle otto passate. Mh, sì, idea poco geniale: due sfortunate insieme volete che non si ritrovano bloccate in una stazione dimenticata da Odino perché una tizia sembra che sia stata investita da un treno? In pratica, per arrivare a casa ho fatto il giro dei sette colli (Odino santifica la buona E. e mia zia, davvero!), alle otto passate di sera, in stile zombie che più zombie non si può e per concludere la giornata vengo bullizzata da mio padre che, alla notizia che la ragazza è rimasta tra due treni uscendone praticamente illesa (”contusione alla caviglia”... mi sono fatta più male io sugli sci. Questa è stata graziata da Dio!) se ne esce con “Già e in più ti ha rotto le palle a te :D”.
Bene, direi che per evitare di sfidare ancora di più la Leggi di Murphy me ne vado al sicuro a letto. E’ meglio.
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